Quando sulle carrette del mare c' eravamo noi
Le storie rimosse di migliaia di italiani inghiottiti dall' Oceano inseguendo il sogno americano Un secolo fa i nostri emigranti erano vittime di armatori senza scrupoli come i naufraghi nordafricani che oggi muoiono nel Mediterranwo |
di Gian Antonio Stella
da Il Corriere della Sera del , 26 ottobre, 2003
«Non trovo parole adeguate per descriverle per
l' intiero lo sconvolgimento del Piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di
coloro che hanno intrapreso il viaggio
involontariamente, in tempo di burrasca.
Le onde spaventose s' innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il
vapore è combattuto da poppa a prua, e battuto dai fianchi. Non le descriverò
gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggieri non assuefatti a
cositali complimenti . Tralascio dirle dei casi di morte, che in media ne
muoiono 5 o 6 per 100, e pregare il Supremo Iddio che non si sviluppino malattie
contagiose, che allora non si può dire come andrà». Nella lettera di Francesco
Costantin, di Biadene, Treviso, spedita a casa dal Sudamerica nel 1889, c' è
tutto il terrore che un contadino della Val Padana o degli Appennini abruzzesi o
lucani poteva provare solcando quell' Atlantico che separava la spaventosa
miseria italiana dal grande sogno americano. Il libro Merica Merica di Emilio
Franzina, straordinaria antologia di lettere dei nostri emigranti, è gonfio di
questo spavento per il mare, la vastità incontenibile del mare, la devastante
violenza del mare. «Il viaggio è stato molto pesante tanto che per mio consiglio
non incontrerebbe tali tribulazioni nepur il mio cane che ho lasciato in
Italia», scrive Bortolo Rosolen, partito da Pieve di Soligo per il Brasile. Un
calvario destinato a diventare ancora più crudele dopo lo sbarco: «Piangendo li
descriverò che dopo pochi giorni si ammalò tutti i miei figli e anche le donne.
Noi che abbiamo condotto undici figli nell' America ora siamo rimasti con
cinque, e gli altri li abbiamo perduti». E gonfi di spavento per il mare sono
gli ex voto sparsi per le chiese e i santuari. Come quello di Antonino Carlo
Magnano, che ringrazia la Madonna per essere scampato a un naufragio il 4 luglio
1898. Quale? Stavolta lo sappiamo: quello de ""La Bourgogne"", un vapore
francese partito da Le Havre e affondato al largo della Nuova Scozia dopo una
collisione con un veliero inglese. Furono 549, i morti. Tra i quali, con ogni
probabilità, molti italiani. Partiti a decine di migliaia da Le Havre, a cavallo
tra Ottocento e Novecento, e troppo spesso inghiottiti dall' Oceano in tragedie
spaventose delle quali praticamente non resta traccia neppure nei migliori
archivi dei giornali italiani come il nostro del Corriere. Furono tanti, i
naufragi che videro coinvolti gli italiani. Compreso quello del ""Titanic"", nel
quale morì, per fare un solo esempio, un certo Abele Rigozzi che era partito
dall' Aquila. E furono tanti i naufragi di navi italiane, spesso fatte partire
da armatori senza scrupoli. Come il ""Principessa Mafalda"", che nel 1927 era
ancora la nave ammiraglia della nostra Marina commerciale ma dopo avere
scaricato in America del Sud migliaia e migliaia di poveretti in un via-vai
incessante sulla rotta per Buenos Aires era ormai acciaccata. Le macchine non
marciavano a dovere, quell' 11 ottobre in cui, in ritardo proprio per il
tentativo dei meccanici di sistemare i problemi, la nave partì da Genova. E dopo
tre giorni si inoltrò nell' Atlantico nonostante i motori nel Mediterraneo si
fossero fermati otto volte. A Dakar, nuova sosta e nuove riparazioni, decisero
di andare avanti lo stesso. Con la nave così piegata di lato «che i bicchieri si
rovesciavano sui tavoli». Dio protesse quei poveretti fino alle coste
brasiliane. Poi li abbandonò. Era il 25 ottobre. L' asse porta-elica di sinistra
si sfilò, la nave cominciò a imbarcare acqua, si scatenò il panico. Il capitano
cercò per ore di mettere ordine nell' evacuazione, revolver alla mano. Ma i
passeggeri terrorizzati erano troppi, le scialuppe troppo poche. E tra le acque
arrivarono subito sciami di squali bianchi. Morirono in 385. Ma il numero finì
tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7. A una colonna. I giornali di
allora preferivano dare spazio alla retorica del comandante eroe che aveva
voluto affondare con la nave. Che gli importava, di quei poveracci che fuggivano
da un' Italia che non aveva pane per loro? Più spaventosa ancora, vent' anni
prima, era stata la tragedia del ""Sirio"", un vapore partito da Genova verso il
Sudamerica. A bordo, dice la struggente canzone composta sulla catastrofe,
«cantar si sentivano / tutti alegri del suo destin». Era il 4 agosto del 1906,
il tempo era buono, il mare piatto, quando la nave si schiantò su uno scoglio a
tre metri di profondità. I danni erano gravissimi ma l' affondamento totale
sarebbe avvenuto solo 16 giorni dopo. Avrebbero potuto salvarsi tutti. Ma l'
evacuazione fu così caotica e disperata che alla fine il bilancio, stilato dai
Lloyd' s, fu apocalittico: 292 morti. In realtà, pare che le vittime siano state
ancora di più: tra le 440 e le 500. Per il ""Sirio"" e la ""Principessa
Mafalda"" sì, ci fu una qualche attenzione: erano troppo grandi, quelle
tragedie, per ignorarle. Ma tutta la nostra storia di emigranti è piena di
naufragi che, come quelli che viviamo ai nostri giorni nel canale di Sicilia e
che di rado finiscono sui giornali dei Paesi arabi o africani, sono stati
rimossi. Come quello della ""Ortigia"", cozzata il 24 novembre 1880 davanti alle
coste argentine de la Plata con il mercantile ""Long Joseph"" e affondata con
249 poveretti. O del ""Sudamerica"", che si inabissò nelle stesse acque nel
gennaio 1888 con un carico di 80 anime. Lutti collettivi elaborati da migliaia
di famiglie in silenzio. Senza che lo Stato, la politica, i giornali, la scuola,
si facessero mai carico di piangere insieme tutta quella umanità inghiottita
dalle acque. Eppure le vittime dei naufragi sono solo una parte dei morti che
hanno segnato il grande esodo dall' Italia. Più ancora, infatti, furono i
poveretti che perirono sulle navi per le condizioni igieniche in cui si
viaggiava. Basti ricordare quanto scriveva nel 1908 T. Rosati in L' assistenza
sanitaria degli emigrati e dei marinai: «L' emigrante si sdraia vestito e
calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano
orine e feci, i più vi vomitano: tutti, in una maniera o nell' altra, l' hanno
ridotto dopo qualche giorno a una cuccia da cane. A viaggio compiuto, quando non
lo si cambia, ciò che accade spesso, è lì come fu lasciato, con sudiciume e
insetti, pronto a ricevere un nuovo partente». O leggere gli agghiaccianti
rapporti dei medici di bordo raccolti da Augusta Molinari nel suo Le navi di
Lazzaro. Come quello del ""White Star Line"" da Napoli a New York nel maggio
1905: «La temperatura non è il solo fattore che rende nei dormitori l' atmosfera
irrespirabile. Vi concorre il vapore acqueo e l' acido carbonico della
respirazione, i prodotti volatili che svolgono dalla secrezione dei corpi, dagli
indumenti dei bambini e degli adulti, che per tema o per pigrizia non esitano a
emettere urine e feci negli angoli del locale. La puzza è tale che il personale
di bordo si rifiuta spesso di entrare per lavare i pavimenti». Furono centinaia
i morti di colera tra i 1.333 passeggeri della ""Matteo Bruzzo"", respinta a
cannonate dalle autorità uruguayane e costretta a smaltir l' epidemia girando
per i mari dove via via sversavano i cadaveri, decine (20 solo durante una sosta
ad Aden per un guasto) quelli del veliero ""India"" diretto nel 1880 verso la
Nuova Guinea e l' Australia, dove sarebbe arrivato dopo 366 giorni di viaggio,
34 per la fame sul ""Carlo Raggio"" nel 1888 e altri 206 sei anni dopo per il
colera e il morbillo, 96 per la difterite nel 1893 sul piroscafo ""Remo"", 27
per asfissia nel 1889 sul ""Frisia"", 32 lo stesso anno sul ""Giava"" per
avvelenamento da cibi guasti... Furono un' ecatombe, i viaggi dei nostri vecchi.
Della quale fecero le spese, come scrisse il medico di bordo del ""Sudamerica""
della Anchor Line, soprattutto i più piccoli: «Il maggior numero di decessi è
sempre dato da bambini e più da quelli di età inferiore a cinque anni. Sono le
piccole vittime che cadono per via nel fenomeno migratorio. L' impotenza di
resistere ai disagi cui i teneri organi sono sottoposti. L' aumento dei morti
nei viaggi di andata fu determinato da una maggior frequenza nei bambini dell'
infermità dell' apparato respiratorio, essendovi 30 decessi per bronchite e
polmonite. Delle forme morbose furono con frequenza mortali tra i bambini anche
l' enterite acuta, 17 decessi, e la meningite, 10 decessi...». Cinquantasette
bambini, in un solo viaggio. «Principessa Mafalda» Il «Principessa Mafalda»
nel 1927, nonostante le condizioni disastrose, era ancora
la nave ammiraglia della nostra Marina commerciale. Il 25 ottobre dello stesso
anno davanti alle coste brasiliane, dopo numerose avarie, la nave cominciò a
imbarcare acqua. Nel naufragio morirono 385 persone. ma i giornali preferirono
parlare soltanto del comandante, eroe che aveva voluto affondare con la nave.