Biden o Trump, quale politica estera
in Usa dopo il 2024
di Askanews
Joe Biden e Donald Trump hanno idee
opposte sulla politica estera e sulla proiezione americana sullo
scenario globale, ma la situazione contingente imporrà anche alcuni
elementi di continuità all'indomani del voto presidenziale del 2024.È
quanto è emerso dall'incontro organizzato dal Centro Studi Americani,
dal titolo "L'America e la leadership mondiale dopo il voto", con la
giornalista e conduttrice Monica Maggioni, Alessandro Colombo,
professore di Relazioni internazionali presso l'Università di Milano, e
l'esperto di Medio Oriente dell'Atlantic Council Karim Mezran.Maggioni
ha sottolineato come sia difficile prevedere il comportamento della
futura Amministrazione "in un momento di altissima disruption globale":
e se le differenze fra i due candidati sono strutturali "non è ancora
detto che a giocarsela siano proprio loro: Nikki Haley non ha ancora
rinunciato e ci sono i problemi legali di Trump".Per Biden tuttavia la
difficoltà principale potrebbe trovarsi nell'andare alle urne con i
conflitti in Ucraina e in Medio Oriente ancora aperti: una situazione da
cui Trump potrebbe trarre vantaggio poiché "dà risposte semplici a un
elettorato al quale non importa molto delle questioni di politica
estera".
Colombo da parte sua sottolinea
tre temi su cui tutte le ultime Amministrazioni hanno dovuto
confrontarsi: "Un problema, e cioè che il ruolo egemonico degli
Stati uniti non è più perseguibile e quindi trovare un equilibrio
fra risorse e impegni; un dilemma, ovvero in che modo rendere
sostenibili gli impegni senza perdere credibilità, come accaduto con
i ritiri dall'Iraq e dall'Afghanistan; e una priorità, la Cina".E
tuttavia, vi sono molte differenze fra i due candidati: una di
linguaggio, con Biden che "è convinto della superiorità americana in
termini di soft power mentre Trump è completamente disinteressato
alla questione"; l'altra sul multilateralismo, di cui Biden è un
convinto assertore mentre Trump vuole avere le mani libere.Per
Mezran a decidere l'esito delle elezioni saranno soprattutto le
questioni economiche; ma mentre Biden difende l'idea di una
governance globale, Trump (ma non necessariamente tutto il partito
Repubblicano) nega questa possibilità con il suo Make America Great
Again.Anche la politica estera tuttavia conterà qualcosa sullo
scenario elettorale: la questione cinese preoccupa i colletti blu
mentre il conflitto israelo-palestinese potrebbe aver alienato a
Biden il voto di una parte dei giovani e delle minoranze - fattore
non trascurabile in quello che si preannuncia un testa a
testa.Infine, le conseguenze sull'Europa e in particolare la Difesa
europea. Non è detto che con una vittoria di Trump un disimpegno
parziale degli Stati Uniti porti a un aumento della coerenza e
dell'impegno europei, nota Colombo: anzi, in passato è accaduto
esattamente il contrario.L'Europa, alle prese con una maggiore
unione politica e militare, deve infatti "decidere in anticipo chi
comanda, e questa è una domanda sempre divisiva"; inoltre, i
conflitti in corso in Ucraina e Medio Oriente aumenteranno le
difficoltà di coesione all'interno dell'Ue: per l'Europa centrale e
settentrionale la chiave della sicurezza ora è a Est, mentre per
quella meridionale è a sud "ed è difficile avere una politica comune
quando si hanno preoccupazioni diverse".
Biden-Trump, inconfessabili convergenze
sull’Ucraina?
di
Federico Rampini
Sarebbe davvero radicalmente
diversa la politica di Donald Trump sull’Ucraina,
se dovesse tornare lui alla presidenza degli Stati Uniti? Forse
un po’ meno di quanto si dice. Sia perché Trump non è così
anti-ucraino come sembra. Sia perché Biden non è determinato
come lui vorrebbe far credere.
Un segnale su
quest’ultimo punto: il presidente in carica ha
appena presentato al Congresso una proposta di
bilancio federale che prevede una riduzione
delle spese militari, non un aumento. È il
quarto anno consecutivo in cui il Pentagono
subisce una cura dimagrante. Si può contestare o
condividere questa scelta, ma di sicuro non è un
segnale di forte deterrenza lanciato ai numerosi
avversari dell’America.
Da quando i
due candidati repubblicano e democratico hanno
incassato i delegati sufficienti alla
nomination, le macchine della propaganda si sono
messe in moto. La tentazione di accentuare le
differenze fa parte del marketing elettorale.
Ciascuno
descrive il mondo in bianco e nero, la vittoria
dell’avversario deve essere per forza
l’Apocalisse. La polarizzazione dei media
americani non aiuta ad avere una percezione
equilibrata e sfumata; forse la complessità e il
dubbio non fanno vendere? E’ stato osservato,
per esempio, che da quando Trump non è più alla
Casa Bianca un giornale anti-trumpiano per
eccellenza come il Washington Post è sprofondato
in una crisi grave, e perfino un editore
straricco come Jeff Bezos (Amazon) ha deciso dei
tagli. Ora il Washington Post deve sperare di
rilanciarsi con questa campagna elettorale. Se
l’esperienza passata insegna qualcosa, la caccia
al lettore non avverrà all’insegna
dell’equilibrio.
«La prima vittima in ogni guerra, è la verità»:
questa massima si applica anche alle campagne
elettorali. L’Ucraina è un test che Biden offre
come la prova che la sua politica estera è di
gran lunga migliore per arginare l’espansionismo
russo, quello cinese, quello iraniano. I
risultati non sono all’altezza di questa
affermazione, però. Una spiegazione non sta nei
difetti di strategia, di tattica, di esecuzione,
ma nella volontà del popolo americano. La
rappresentazione per cui c’è un America
isolazionista a destra, e un’America
internazionalista a sinistra, è una delle tante
forzature di cui sopra.
Sul fronte internazionale Biden inaugurò il suo
mandato incontrando Putin a Ginevra il 16 giugno
2021 in un vertice bilaterale (l’ultimo) che
deve per forza aver mandato dei segnali confusi,
ambigui, contraddittori allo Zar, visto il
seguito. Di lì a poco, nell’agosto 2021 la
ritirata dall’Afghanistan avveniva in modalità
così disastrose da accentuare in tutti i nemici
dell’America (e anche in molti suoi amici) la
percezione di un declino. Quando Putin ha invaso
l’Ucraina la prima reazione di Biden è stata di
suggerire a Zelensky la fuga in esilio.
Chi ha
descritto da allora un’America guerrafondaia e
militarista, intenta ad aizzare gli ucraini
perché combattano una «guerra per procura»
contro la Russia, dimentica tutti i segnali
diametralmente opposti: fin dall’inizio Biden
escluse l’invio di militari americani, promise
che non ci sarebbe mai stato uno scontro
Nato-Russia, negò a Zelensky molti degli
armamenti richiesti. Perché tutta questa
moderazione? Per il semplice fatto che
l’elettorato democratico sull’Ucraina non è
molto distante dall’elettorato repubblicano: la
maggioranza degli americani non vuole che Putin
vinca ma non vuole neanche che questa guerra si
trascini troppo, non vuole che i costi salgano
troppo, tantomeno vuole un coinvolgimento
americano.
Né la sinistra né la destra americana sono
disposte a impegnarsi più di tanto. Biden ne ha
tratto le conseguenze. La sua posizione vista da
Putin è piuttosto rinunciataria, difensiva. E
Trump? La sua promessa di «chiudere la guerra in
24 ore» è stata letta come una resa
incondizionata a Putin. E’ altrettanto legittima
una lettura opposta, come quella che suggerisce
Holman Jenkins sul Wall Street Journal. Cioè
Trump si vanta di poter intimorire la Russia con
la prospettiva di un tale aumento delle spese
militari, da spingere Putin verso un
cessate-il-fuoco. Una strategia reaganiana:
Ronald Reagan vinse la guerra fredda contro
l’Urss perché l’economia sovietica collassò
nella corsa al riarmo.
La verità
sulla politica estera di un personaggio così
imprevedibile come The Donald, è impossibile da
determinare in anticipo. Forse è più corretto
definirlo «transactional», anziché
isolazionista. «Transactional» descrive
l’atteggiamento di chi affronta le relazioni
internazionali come un negoziato d’affari, nel
quale bisogna cercare di ottenere il massimo.
Così, anche il minacciato ritiro dalla Nato
potrebbe diventare una tattica negoziale per
estorcere il massimo aumento di spese militari
dalla Germania, e magari qualche concessione
pure sul terreno commerciale. Questa ipotesi «transactional»
sta già inducendo Macron, Scholz e altri leader
europei a ripensare i propri rapporti con
Washington in termini strettamente bilaterali,
perché considerano meno efficace un approccio
affidato all’Unione europea. La sorprendente
convergenza Biden-Trump sull’Ucraina è questa:
nessuno dei due candidati pensa che in quella
guerra sia in gioco un interesse vitale negli
Stati Uniti. La differenza è che Trump lo dice,
Biden lo ha dimostrato nei fatti. Poi ciascuno
deve vedersela con spaccature interne della
propria base elettorale: la destra è più
vulnerabile alle divisioni sull’Ucraina (i
repubblicani non vengono da una tradizione
russofila) mentre la sinistra vive uno scisma
interno israelo-palestinese. Biden 2 sarebbe la
garanzia che il ruolo dell’America nel mondo
verrà confermato? Ma questo ruolo si sta
ridimensionando a vista d’occhio e la sua
Amministrazione ha assecondato questo declino.
La questione
della spesa militare non è banale. Si è visto
che fra le tante motivazioni per lesinare
forniture di armi a Kiev, c’è l’obiettiva
scarsità di queste armi negli arsenali americani
e della Nato. Al suo discorso sullo Stato
dell’Unione Biden ha rievocato Franklin
Roosevelt e il drammatico precedente del gennaio
1941. Quel precedente storico è fuorviante per
molte ragioni tra cui questa: ben due anni prima
di entrare in guerra contro Hitler e Hirohito,
Roosevelt aveva cominciato ad aumentare gli
investimenti nella sicurezza, fino a
quintuplicare le spese militari in rapporto al
Pil americano, mentre sotto Biden continuano a
scendere.
L’ultimo
budget del ministero della Difesa che Biden ha
presentato al Congresso per la sua approvazione,
prevede un aumento dell’1% cioè una riduzione in
termini reali: al netto dell’inflazione si
tratta di un calo, e il segno meno si ripete per
il quarto anno consecutivo. Da confrontare, per
esempio, con l’aumento delle spese militari
cinesi: +7,2% annuo. Se Trump tornasse alla Casa
Bianca probabilmente aumenterebbe le spese
militari, pur lesinando gli aiuti agli alleati
in modo da costringerli a fare la loro parte. Ma
alla fine sia un Trump 2 sia un Biden 2
dovrebbero vedersela con gli equilibri al
Congresso, perché tutte queste spese devono
essere votate da Camera e Senato.
Le differenze tra i due candidati, esagerate
all’eccesso per la campagna elettorale, devono
fare i conti con la pesantezza della realtà: a
cominciare da quel vincolo importante che è
l’umore del popolo americano. Sulla differenza
tra la politica estera dei due candidati,
stasera vi propongo di ascoltare la
mia intervista al generale David Petraeus
(ex comandante capo in Iraq e Afghanistan; ex
direttore della Cia): un giudizio autorevole
anche perché Petraeus è dichiaratamente
a-partitico, al punto da non votare. Parla in
apertura della seconda puntata della mia serie
tv «Inchieste da fermo» su La7, alle 21.15.
Questa sera viaggeremo nel cuore dell’America
trumpiana.
|