LA TRAVERSATA
La nave si era
messa in viaggio da poche ore. La baia di Napoli era scomparsa dalla vista e
nemmeno il Vesuvio si vedeva più. A bordo ci furono consegnate i numeri delle
cabine. La maggior parte dei viaggiatori erano emigranti e le cabine erano in
terza classe.
A me mi fu assegnata una cabina per due nel reparto donne. La mia compagna di
viaggio era una ragazza della mia età,veniva da un paese vicino e viaggiava
sola. Mi disse che a New York avrebbe trovato i parenti ad attenderla. La cabina
era piccola con due cuccette una sopra l’altra. La scaletta per salire alla
cuccetta di sopra era appoggiata ai piedi dei lettini. Dall’oblò si vedevano le
onde del mare infrangersi contro la nave. Un mondo sconosciuto e misterioso mai
prima visto si stava aprendo davanti a me. Mi affacciai alla porta,vidi un lungo
corridoio con tante porticine, alcune chiuse, altre semi aperte. Dalle porte
venivano fuori tante voci sommesse e ogni tanto si affacciava il capo di qualche
donna e come me guardava su e giù il lungo corridoio.
Si avvicinava l’ora del pranzo, il primo pranzo.
Andammo su tutto un gruppo verso il salone da pranzo.
La sala da pranzo era un enorme salone con tante tavole imbandite su ogni tavola
un numero.
A un lato della sala
c’era una fila di tavoli apparecchiate e sopra ognuna una varietà infinita di
frutta. All’altro lato un bar attrezzatissimo. Con Michela, la mia compagna di
viaggio, andammo a sederci al nostro tavolo corrispondente al numero che ci era
stato assegnato. Era un tavolone di 20 persone, lì ci raggiunse anche mio padre.
Il pranzo fu stupendo, c’era tutto: antipasti, primo piatto,
secondo piatto, frutta e formaggio caffe e dolce.
Era un banchetto come quelli di sposalizio. I camerieri che servivano erano
vestiti in impeccabili uniformi. Sembrava di stare in un lussuoso hotel. Che
grande contrasto tra noi che partivamo ora e gli altri emigrati che salpavano
al principio del secolo.
Dopo il pasto con Michelina e altre ragazze andammo ad esplorare la nave. C’era
tutto: ufficio postale ,sala giochi ,bar, sala lettura, negozio, parrucchiere
anche una sala con baby sitter. Il pomeriggio veniva servito il te o caffè con
biscotti, più tardi la cena. Sul ponte della nave non c’era gente allungata per
terra come erano costretti a viaggiare gli emigranti dei primi anni del
Novecento. Ora c’erano file di sedie con ombrelloni e gente che prendeva il
sole. Era tutto ordinato, tutto pulito.
Così trascorsi il primo giorno a bordo. Seguirono giorni simili tra cielo e
mare. Il colore blu intenso del mare si confondeva col celeste del cielo. La
sera dopo cena mi recavo sul ponte a godere il tramonto. Era uno spettacolo
stupendo. Il cielo si tingeva di rosso,la grande sfera spariva pian piano
all’orizzonte dietro il mare. Poi tutto era buio. Il cielo scuro ci punteggiava
di tremule stelle con la luna si specchiavano sul mare. Non c’era terra, non
c’erano ostacoli, il quadro si vedeva fin dove arrivava l’occhio, fino al
lontano orizzonte. All’ombra le coppie si baciavano, sottofondo suonava una
musica leggera. Con tutto ciò le giornate sembrava che non passassero mai. Cielo
e mare, niente altro. Dopo sette giorni di viaggio arrivò il giorno prima dello
sbarco. Mi preparai la valigia. Presi il completino celeste per comprare il
quale che mamma si era “spiantata” ( per farmi così fare una bella figura aveva
detto) e lo preparai per il giorno dopo. Io e Michela passammo la nottata a
palare, eravamo eccitate: il giorno dopo saremmo sbarcate nel Nuovo Mondo.
Immaginavamo di incontrare i parenti, ci domandavamo cosa ci avrebbero detto,
come ci avrebbero accolte.
La mattina dopo la nave era un brucolare di gente con valige, borse , mamme con
bambini che piangevano, uomini e donne. Tutti spingevano verso l’uscita della
nave. Tutti volevano essere primi a sbarcare. Era una giornata afosa, nuvolosa
all’orizzonte si intravedeva un po’ del porto di New York coperto di nebbia.
Come d’incanto apparve la grande Statua della Libertà. La gente mandò un urlo e
batterono le mani, eravamo veramente in USA. La gente era come impazzita
pestavano, spingevano davano gomitate per uscire, nessuno più rispettava la
fila.