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agosto 2018 -
“Questo popolo ricorda ancora bene la guerra degli anni Novanta, capisce cosa significa essere profughi. Molti volontari che incontriamo, in passato, sono stati in un campo profughi a loro volta. E non lo dimenticano”. Il popolo è quello bosniaco, e la frase è di un operatore umanitario che sta lavorando con le migliaia di migranti che si trovano sul confine bosniaco con la Serbia - una delle testimonianze raccolte per noi da Christian Elia.
Che sarebbe stata una lunga estate per le persone che sono bloccate in Bosnia-Erzegovina nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea lo si sapeva da mesi. L’Unhcr lo aveva annunciato già in primavera, ma gli stati dell’area hanno pensato a blindare le frontiere senza concordare una strategia di accoglienza umanitaria che non creasse emergenze e tensioni. Adesso il clima sul tema rifugiati e richiedenti asilo, in Bosnia-Erzegovina, diventa ogni giorno più rovente.
“Dall’inizio di quest’anno, centinaia di rifugiati e migranti entrano in Bosnia-Erzegovina ogni mese, diretti verso l’Europa occidentale. Con l’aumento dei nuovi arrivati, è diventato sempre più evidente che le autorità locali e statali non hanno intrapreso alcuna azione per garantire un’adeguata fornitura di cibo, riparo o accesso all’assistenza sanitaria”, denuncia Lana Pasic, giornalista di Al-Jazeera Balkans.
“Mentre il clima si faceva più caldo, alcuni di questi rifugiati si stabilivano nel piccolo parco di fronte al municipio di Sarajevo. I comuni cittadini e le organizzazioni non governative si organizzavano per portare occasionalmente cibo e altri generi di prima necessità; altri passavano, rivolgendo loro uno sguardo ostile. Mentre i rifugiati diventavano più visibili nei parchi e nelle strade, i sentimenti xenofobi divampavano tra la popolazione, alimentati da notizie ostili dei media. Solo a metà maggio, quando il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha inviato una lettera ufficiale al governo, si sono decisi ad agire. Una delle loro iniziative è stata il trasferimento di 270 persone da Sarajevo al centro di asilo di Salakovac, vicino alla città di Mostar”.
Un anno di elezioni
Come è finita è cosa nota: per gli equilibri nati dopo gli accordi di Dayton, nel 1995, che chiusero la guerra nella ex-Jugoslavia, la polizia della zona (a maggioranza croata) ha disubbidito a Sarajevo, bloccando per oltre cinque ore i bus, in un braccio di ferro tutto politico che racconta la Bosnia-Erzogovina del 2018, anno di elezioni, che si terranno a ottobre.
“Dopo lo stallo nel Cantone dell’Erzegovina-Neretva, il ministro della sicurezza della Bosnia, Dragan Mektic – un serbo bosniaco – ha definito l’incidente un ‘colpo di stato virtuale’ e ha chiesto l’arresto del commissario di polizia croato del Cantone per aver sfidato gli ordini. Poi, il capo della presidenza tripartita della Bosnia, Bakir Izetbegovic, che è un musulmano, ha affermato che non è stato un ‘colpo di stato’, ma che è stato incostituzionale. In risposta, i croati del parlamento cantonale, che sono la maggioranza, hanno dichiarato che richiederanno le dimissioni del ministro della sicurezza”, racconta Pasic, restituendo un affresco kafkiano di lotta tra poteri.
La Bosnia-Erzegovina nata dalle ceneri della Jugoslavia ha due entità federate e tre anime: la Repubblica Srpska dei serbi di Bosnia e la Federazione croato – musulmana. A ottobre si rinnova la presidenza tripartita del paese e le tensioni politiche stanno avvelenando il clima, strumentalizzando la questione dei rifugiati. Perché l’agenda di Zagabria, zelante gendarme delle frontiere esterne dell’Ue, anche se non ai livelli del gruppo di Visegrad, e l’agenda di Mosca, con l’islamofobia latente verso i rifugiati di origine araba, orientano le scelte di croati e serbi di Bosnia.
Dopo la chiusura della frontiera fra Serbia e Croazia
Un clima che ha portato alla chiusura della frontiera tra Serbia e Croazia e ha spinto molti rifugiati e richiedenti asilo verso la Bosnia. Dove, però, nessuno ha attrezzato un’accoglienza organizzata nonostante i numeri siano passati dai 755 rifugiati in Bosnia del 2017 ai circa 10 mila transiti di quest’anno.
“Le violenze della polizia croata stanno diventando sistematiche, anche verso coloro che erano riusciti ad arrivare in Slovenia e che, fermati dalla polizia slovena, vengono riconsegnati alla polizia croata che li riporta in Bosnia, con evidenti segni di maltrattamenti. E li vediamo quasi ogni giorno. A volte le condizioni sono più gravi, con persone che quando arrivano non riescono neanche a camminare, con ferite alla schiena, piedi gonfi, ferite alle gambe, altre volte la situazione è meno grave, ma sono evidenti i segni di percosse”.
A raccontarcelo al telefono è Juan Matias Gil, capo missione di Medici Senza Frontiere in Serbia e Bosnia-Erzegovina. È stanco e conferma quanto denunciano ogni giorno gli attivisti di NoNameKitchen, che documentano con foto e interviste le singole storie. La situazione è in rapido deterioramento, anche perché come sempre l’arrivo del freddo renderà ancora più dura una situazione già grave. Di quante persone parliamo?
“Le persone che incontriamo sono un po’ un deja-vu per noi, con gli stessi problemi che hanno quando restano in Serbia, paese dal quale arriva la maggioranza di quelli che abbiamo incontrato. Oltre a questi, ne arrivano anche dalla rotta Grecia-Albania-Montenegro, ma non sono tanti. Il confine serbo-croato è attualmente chiuso e allora si dirigono verso la Bosnia. I numeri ufficiali, dall’inizio dell’anno, parlano di 10 mila persone, ma è impossibile dirlo con precisione. Attualmente, nella zona di confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia, che è proprio dove operiamo noi, si stima la presenza di almeno quattromila persone, ma è un numero estremamente volatile, perché queste persone provano ogni giorno ad attraversare il confine, tornano indietro, ritentano di nuovo. Non c’è nessun tipo di registrazione e nessuna agenzia internazionale. L’unico parametro di calcolo è quello della distribuzione di cibo. Che più o meno indicano in tremila le persone a Bihac e in mille quelle a Velika Kladusa”, spiega Gil.
Un palazzo, un albergo, un campo, forse un capannone dismesso
“A Bihac stanno in un palazzo di quattro piani, distrutto, senza tetto, senza finestre. La situazione è dura, ma è ancora caldo, per l’inverno certamente bisognerà trovare un’altra soluzione. Già adesso, quando piove, dentro diventa una piscina. La municipalità ha detto che vorrebbe ristrutturare l’immobile, ma è molto improbabile, visti i costi che comporterebbe. In questo posto, più o meno, ci sono mille persone. L’Unhcr ha affittato un albergo a Cazin per le famiglie, parliamo di circa 500 persone, quindi insufficiente. E poi c’è un campo aperto, a Velika, più o meno un chilometro fuori dalla città. Ci sono tende, coperte con plastica, ma quando piove è un incubo. Stanno valutando di trasferirli in un capannone di un’industria dismessa, ma comunque non basterebbe per tutti. L’alloggio, con l’arrivo del freddo, è una delle preoccupazioni più grandi. Noi lavoriamo in partnership con il ministero della Salute locale, forniamo assistenza tecnica, donazioni di medicinali, logistica, ma sono medici e infermieri locali che fanno le consultazioni, avendo l’abilitazione tecnica secondo le leggi locali. Fanno il loro lavoro, dopo uno smarrimento iniziale. Dovevano abituarsi a una situazione che non conoscevano e a gestire patologie che non incontravano da tempo, che sono quelle tipiche del viaggio: problemi respiratori e cutanei, che derivano dalla scarsa igiene, dal dormire tutti assieme e dalle condizioni di vulnerabilità alle quali sono esposte. Abbiamo aiutato a vincere certe paure, come la malaria, rivedendo insieme i protocolli. Ed è un discorso, in generale, che va fatto per l’umanità della Bosnia, che a livello di ospitalità si comporta in modo abbastanza buono. Adesso, però, magari comincia a generarsi qualche tensione, man mano che si prende coscienza che questo non è un problema passeggero, ma che può durare a lungo. I primi giorni era più semplice: ospitavano, davano da mangiare, ora meno, ma per ora devo dire che questo popolo ricorda ancora bene la guerra degli anni Novanta, capisce cosa significa essere profughi. Molti volontari che incontriamo, in passato, sono stati in un campo profughi a loro volta. E non lo dimenticano”.
La politica invece sì. E mentre croati, serbi e bosgnacchi si rinfacciano responsabilità e finalità occulte, usando i profughi come un elemento della campagna elettorale, il clima generale del paese si fa sempre più rigido. Nella zona a maggioranza croata si è festeggiata come fosse festa nazionale l’Operazione Tempesta, considerata invece tra i serbi di Bosnia un episodio di pulizia etnica, mentre Milorad Dodik, leader dei serbi di Bosnia, ha chiesto la cancellazione del rapporto del 2004 che nel parlamento di Banja Luka riconosceva che a Srebrenica nel 1995 si fosse verificato un crimine di guerra.
In questo clima di tensioni, i rifugiati sono uno degli strumenti con i quali farsi la guerra elettorale. Quanto di tutto questo è chiaro a persone in fuga dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria? Quanto tutto questo potrebbe spingerli a desistere?
Gil non ha dubbi. “Non hanno nulla da perdere e hanno ben chiara la situazione, sanno che potrebbero attraversare il confine domani, tra sei mesi o tra un anno. Hanno un meccanismo di sopravvivenza che non possiamo neanche immaginare fino in fondo, e non hanno modo di tornare indietro verso situazioni di provenienza devastanti. Così come hanno ben chiaro che né la Bosnia-Erzegovina né la Serbia sono destinazioni finali. Restano là, fino a quando hanno un’opportunità di attraversare. Alcuni di loro son già stati in Ungheria, o in Bulgaria, e conoscono anche il clima che c’è attorno a loro. Hanno chiaro tutto, ma non possono e non vogliono tornare indietro. Cercano solo la loro opportunità. Parli con loro, ti raccontano dei pestaggi subiti. Gli chiedi ‘e ora? Che farai?’. Ti guardano e ti rispondono: ‘aspetto di riprovarci’”.
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