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Gli italiani sono stati protagonisti del più
grande esodo migratorio della storia moderna. Nell’arco di poco più di un
secolo, a partire dal 1861, sono state registrate più di ventiquattro
milioni di partenze, un numero quasi equivalente all’ammontare della
popolazione al momento dell’Unità. Certo, si tratta di un dato al lordo dei
rientri, ma da solo basta a dare un’idea della vastità del fenomeno. Si
trattò di un esodo che, a differenza di quanto si crede comunemente, toccò
tutte le regioni italiane, con una priorità dell’esodo settentrionale tra il
1876 e il 1900 con tre regioni che fornirono da sole il 47 per cento del
contingente migratorio: il Veneto (17,9), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per
cento) e il Piemonte (12,5 per cento). La situazione si capovolse nei due
decenni successivi quando il primato migratorio passò alle regioni
meridionali con la Sicilia che dette il maggior contributo, 12,8 per cento
con 1.126.513 emigranti, seguita dalla Campania con 955.1889 (10,9 per
cento).
Il fenomeno non si è esaurito. Oggi gli italiani sono ancora al primo posto
tra i migranti comunitari (1.185.700 di cui 563.000 in Germania, 252.800 in
Francia e 216.000 in Belgio) seguiti da portoghesi, spagnoli e greci. Nel
1994 effettuarono la cancellazione anagrafica per l’estero 59.402 italiani
con una prevalenza di partenza dall’Italia meridionale e insulare (57 per
cento); e la Sicilia è di nuovo la prima regione con 13.615 cancellazioni.
Alla Sicilia spettano alcuni primati in campo migratorio, tra cui per il
passato il maggior numero di espatri verso gli Stati Uniti. Negli anni
1890-1913 su dieci siciliani emigrati, nove si recarono negli Stati Uniti.
Negli anni 1950-60 si assistette a una differenziazione delle mete
migratorie dalla regione: dei 400.000 siciliani emigrati circa un 25 per
cento continuò a preferire mete transoceaniche, che questa volta includevano
Oceania, Africa e Asia, un 5 per cento si diresse verso i paesi non europei
del bacino del Mediterraneo, più di un quarto si spostò verso le regioni
industrializzate del Centro Nord italiano ed il resto verso i paesi
dell’Europa del Nord.
Italia contribuì con percentuali analoghe all’esodo verso l’Europa e verso
le Americhe, ma una notevole differenza fu nelle zone di partenza: il
mezzogiorno fornì il 90 per cento della propria emigrazione alle Americhe,
privilegiando gli Stati Uniti. Il viaggio in treno per raggiungere i paesi
dell’Europa settentrionale era non solo altrettanto lungo, ma costava più di
quello sul bastimento. Dal settentrione l’emigrazione transoceanica
privilegiò l’America Latina, con ulteriori suddivisioni: dal Veneto andarono
prevalentemente in Brasile, i piemontesi si diressero prevalentemente in
Argentina. Dalle regioni dell’Italia centrale l’emigrazione si divise
equamente tra stati nordeuropei e mete transoceaniche.
I tratti caratteristici di questa emigrazione furono l’alto tasso di
mascolinità (circa l’ottanta per cento nel periodo iniziale), la giovane età
(la maggioranza apparteneva alla fascia di età compresa tra i quindici e i
quarant’anni), e l’accentuata temporaneità (negli anni 1861-1940 solo un
terzo decise di fermarsi definitivamente all’estero). Si trattò di un esodo
di popolazione agraria, prevalentemente analfabeta: nel 1871 il tasso di
analfabetismo nazionale era del 67,5, e nelle regioni meridionali superava
spesso il 90 per cento. I contadini, agricoltori e braccianti, non furono
gli unici protagonisti: artigiani, muratori e operai li accompagnarono. Tra
i motivi dell’esodo oltre agli effetti della crisi agraria degli anni
ottanta dell’Ottocento e l’aggravarsi delle imposte nelle campagne
meridionali dopo l’unificazione del paese, sono da citare il declino dei
vecchi mestieri artigiani e delle industrie domestiche. Nel Sud Italia la
condizione contadina era aggravata dalla presenza di piccole proprietà
insufficienti per il mantenimento e dal latifondismo. Scriveva Gaetano
Salvemini:
Nel Sud si ricava dalla terra appena tanto da mangiare e da pagare le tasse…
E alla prima difficoltà tutto va per aria. Se non ci fosse l’emigrazione
transoceanica, avremmo ad ogni cattiva raccolta.. delle vere e proprie crisi
di fame.
Ai fattori di espulsione si sommavano quelli di attrazione: mai prima di
allora c’era stata tanta richiesta di manodopera in Europa, soprattutto in
Francia e in Svizzera, e nelle Americhe. L’Argentina incoraggiava
l’immigrazione per la colonizzazione delle sue terre, in Brasile dove dal
1888 era stata abolita la schiavitù, vi era gran richiesta di braccia per le
fazendas: intere famiglie prevalentemente venete, vennero reclutate e
lavorarono per i latifondisti in una sorta di regime mezzadrile. Il lavoro
svolto dagli immigrati dipendeva quindi dalle offerte del mercato del lavoro
nei paesi di insediamento. Negli Stati Uniti gli italiani si concentrarono
nelle grandi città del Nord Est privilegiando i lavori salariati, anche in
vista del rientro in Italia, e furono impiegati nelle fabbriche, nella
costruzione di strade e ferrovie e nelle miniere.
Le modalità dell’emigrazione e dell’insediamento si articolarono
prevalentemente attraverso catene migratorie familiari e di mestiere. Non
trascurabili furono, specialmente nei primi anni del grande esodo, i
numerosi episodi di sfruttamento degli emigranti che iniziava ancor prima
della partenza dal momento che una forma di finanziamento del biglietto
transoceanico era costituta dal credito. Dopo essere stati taglieggiati e
raggirati in patria dagli agenti di emigrazione una volta giunti in America
non trovarono una situazione migliore: da un’inchiesta del 1897 a Chicago
risultò che il 22 per cento degli immigrati italiani lavorava per un
padrone; ciò implicava il versamento di una tangente per ottenere un lavoro
e l’abitazione e l’obbligo di acquistare le merci in uno spaccio indicato.
Gli italiani furono in questi anni oggetto di numerosi episodi di xenofobia
sia in Europa che negli Stati Uniti. I più noti sono quelli di Aigues Mortes,
in Francia, dove nel 1893 morirono nove italiani per mano di una folla
inferocita che colse un banale pretesto per vendicarsi della disponibilità
degli italiani ad accettare paghe più basse dei lavoratori francesi. Negli
Stati Uniti, a New Orleans, nel 1901 undici siciliani vennero linciati con
l’accusa di appartenere alla Mafia. Sempre in America i calabresi e i
siciliani vennero descritti da una commissione parlamentare, istituita nel
1911 per analizzare il fenomeno della nuova immigrazione, come coloro che
davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della
delinquenza nelle città americane. Nei primi decenni di immigrazione la
statistiche censivano separatamente italiani del Nord e del Sud, attribuendo
i primi a un’ipotetica razza "celtica" ed i secondi alla razza mediterranea;
la voce del censimento che riguardava gli italiani inserì i siciliani sotto
la voce non white, perché di pelle scura. Le leggi sull’immigrazione
promulgate durante gli anni venti rifletterono il pregiudizio antmeridionale:
di fatto posero fine all’immigrazione italiana negli Stati Uniti, stabilendo
delle quote per ogni nazionalità, discriminarono di fatto tra le popolazioni
del nord Europa e quelle dell’Europa Sud Orientale.
Due guerre mondiali e il fascismo limitarono fortemente il flusso migratorio
italiano che riprese però nel dopoguerra, inserendo nuove mete come il
Canada e l’Australia, accanto alle solite Stati Uniti, Argentina ed Europa.
Dal 1945 i valori medi annui dell’esodo toccarono le trecentomila unità.
Mentre nel decennio 1946-55 più del cinquanta per cento privilegiò mete
extraeuropee, tra il 1961 e il 1965 l’85 per cento degli espatri avvenne
verso paesi europei. A partire dagli anni sessanta l’emigrazione – quasi
quattro milioni di persone, di cui ben uno dalla Sicilia - avvenne quasi
esclusivamente dalle regioni meridionali e si orientò verso le aree
industrializzate dell’Europa settentrionale e nel triangolo industriale
italiano, in cui si riversarono circa due milioni di immigrati.
Le comunità italiane all’estero oggi
Oggi il numero di italiani che lasciano il proprio paese per cercare
migliori opportunità di lavoro all’estero si è fortemente ridotto, ma non è
completamente esaurito. Si ha un flusso di circa cinquantamila persone che
espatriano e altrettante che rimpatriano. Ciò che è mutato è la qualifica
professionale degli emigranti: è aumentato il numero di tecnici e operai
specializzati che si recano in cantieri o in imprese ad alta tecnologia
italiana nei paesi del terzo mondo.
Gli italiani all’estero secondo le stime del Ministero degli affari esteri
erano nel 1986 5.115.747, di cui il 43 per cento nelle Americhe e il 42,9 in
Europa. L’entità delle collettività di origine italiana ammonta invece a
decine di milioni, comprendendo i discendenti degli immigrati nei vari
paesi. Al primo posto troviamo l’Argentina con 15 milioni di persone, gli
Stati Uniti con 12 milioni, il Brasile con 8 milioni, il Canada con un
milione e l’Australia con 540.000 persone.
Nonostante sia trascorso più di un secolo dagli esordi della diaspora
italiana nel mondo numerosi elementi stanno ad indicare il perdurare di un
senso di appartenenza etnico dei discendenti degli italiani nei confronti
del loro paese d’origine. L’etnicità italiana sembra oggi frutto di scelte
volontarie che si manifestano nei modi più svariati determinati anche dalla
politiche dei paesi di insediamento. Il pluralismo culturale del mondo
anglofono ha indubbiamente favorito il perdurare di rapporti privilegiati
con il paese d’origine, basti pensare all’autoidentificazione di più di 14
milioni di cittadini statunitensi con l’Italia, al diffondersi dello studio
della lingua italiana, all’associazionismo, agli scambi commerciali di
prodotti etnici che, se nel passato erano legati prevalentemente
dall’industria alimentare, sono oggi passati alla moda e al design.