IL COVID IN ITALIA
|
“Il coronavirus non cambia la politica, ma acutizza i suoi problemi”
https://www.orizzontipolitici.it/pandemia-coronavirus-e-comunicazione-politica/
La trepidante attesa per le dirette presidenziali è ormai diventata parte della vita quotidiana di tutti durante la quarantena, in ogni angolo del mondo. Il coronavirus ha influenzato la comunicazione politica dei leader in carica e all’opposizione. Alexandre Kouchner è analista politico, consulente per la comunicazione e professore all’università di Sciences Po. Nel 2016 ha partecipato attivamente alla campagna elettorale del Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron. In questa intervista, spiega a OriPo cosa è cambiato nella comunicazione politica dallo scoppio della pandemia. La pandemia ha modificato il modo di comunicare in politica, soprattutto in Europa occidentale. Cosa è cambiato secondo lei? A mio parere, non è cambiato molto. Ciò che è interessante di questa crisi è che mette in evidenza specificità nazionali che erano già presenti e che adesso sono semplicemente più evidenti. È invece aumentata la necessità di comunicazione politica, ed è per questo che i capi di governo e di stato parlano alla popolazione sempre più frequentemente. È vero infatti che le persone cercano una guida nei propri leader, ma è anche vero che per fini elettorali i politici hanno bisogno di mostrarsi in controllo della situazione. Per quanto riguarda la forma e il contenuto delle comunicazioni, penso che queste riflettano quello che accadeva prima della crisi nei vari Paesi. In Francia, un paese molto “verticale” nell’assetto istituzionale, Macron ha cercato di dare speranza ai cittadini che lo vedono come una figura di riferimento. In Germania, un Paese dove il potere è condiviso e grande importanza è data alle libertà dei cittadini, Angela Merkel ha parlato solo una volta e ha fatto un discorso molto tecnico, poco politico. Al contrario, in Inghilterra invece ha parlato direttamente la Regina. Quello che emerge da questa crisi quindi è un misto di tratti nazionali tipici e specificità istituzionali. Di per sé però nulla è cambiato per davvero da un punto di vista comunicativo. Pare che durante la pandemia la televisione sia tornata in auge come principale mezzo di comunicazione, sorpassando i social. Perché? Di nuovo, la crisi non crea alcuna nuova tendenza, semplicemente evidenza quelle già esistenti. È vero, infatti, che si è riscontrato un aumento nell’utilizzo dei social media negli ultimi anni, perché creano una sensazione di coinvolgimento del cittadino nella vita e nell’attività del politico. Si può dire quindi che i social media siano utilizzati per una comunicazione politica “orizzontale”. Quello che stiamo osservando in questa crisi è il bisogno di una comunicazione “verticale”, che arrivi direttamente al maggior numero possibile di persone. Per questo motivo i media tradizionali come la radio o la televisione, che hanno una base di utenti molto maggiore rispetto ai social media, stanno tornando in auge. Le generazioni più anziane, inoltre, non utilizzano i social media ma sono i più esposte ai pericoli della pandemia. Bisogna quindi assicurarsi che tutti i messaggi arrivino direttamente anche a loro. Inoltre, in questa situazione non si ha bisogno, da un punto di vista politico, di analizzare e rispondere ai feedback che arrivano tramite i social media, quello che importa è imporre il proprio messaggio alla popolazione e assicurarsi un pubblico il più ampio possibile. Per fare questo servono i media tradizionali. Pensa che alla fine della pandemia i social torneranno a essere il mezzo di comunicazione più utilizzato? Ritengo che la scelta del mezzo di comunicazione debba sempre essere basata sul contesto. Adesso siamo in una crisi in cui le persone richiedono comunicazioni ufficiali e certe, e si rivolgono quindi ai media tradizionali. Quando si ricomincerà a fare campagna elettorale si tornerà a utilizzare i social perché sono straordinari per la propaganda. In Italia Conte ha attaccato l’opposizione durante un discorso alla Nazione, utilizzando una modalità che non ha permesso ai suoi avversari politici di ribattere in diretta. Crede che l’abuso di questo tipo di comunicazione “verticale” possa portare a un’ondata autoritaristica in Europa? Io sono d’accordo con chi dice la crisi aumenti il rischio di autoritarismo in Europa. Eppure non credo che questo possa essere il risultato delle scelte comunicative dei capi di governo. Questa crisi diventerà infatti un amplificatore per tutte le fratture sociali ed economiche presenti nella società europea. La possibile ondata autoritaria non verrà scatenata dal fatto che i governi abbiano utilizzato lo stato di emergenza per ottenere più potere, ma dal fatto che una volta superata la crisi sanitaria, populisti di ogni sorta utilizzeranno l’inevitabile crisi economica e sociale per proporre politiche più autoritarie contro un sistema che, a detta loro, non ha garantito abbastanza diritti e sicurezza alla popolazione. Certamente questi partiti diranno che la gestione del virus è stata la prova di come le élites si disinteressino della popolazione e di come l’Unione europea sia debole e fragile. La risposta dei governi in carica, secondo me, dovrebbe essere quella di rimarcare come il sistema democratico si sia dimostrato abbastanza resistente da permetterci di limitare le nostre libertà temporaneamente per poi trarne tutti un beneficio maggiore. Questo messaggio, però, è estremamente complesso e molto complicato da spiegare a una nazione che soffre la perdita di decine di migliaia di persone. Sostenere che la situazione sia stata gestita al meglio delle possibilità è molto più difficile che trasmettere un messaggio di paura e di rivolta. I politici che faranno loro queste istanze avranno buone probabilità di ottenere il potere con largo margine e quindi, eventualmente, di accentuare la deriva autoritaria del proprio Paese. Quindi io non sono spaventato dalla crescita del potere centrale, bensì dagli effetti che questa crisi avrà nel fornire argomenti validi ai partiti populisti. In Francia parliamo spesso del mond d’après, “il mondo dopo”. Io ritengo che il mondo dopo sarà molto influenzato da questa crisi e sarà caratterizzato principalmente da paura, povertà e rabbia. Questi tre elementi sono la ricetta perfetta per tutti coloro che intendono vincere un’elezione utilizzando una retorica populista. A proposito del “mondo dopo”: oltre all’inevitabile crescita di consenso verso i partiti populisti, crede che nel prossimo futuro i politici attualmente al potere potranno sfruttare dei vantaggi elettorali che non avrebbero avuto in circostanze normali? Se potessi predire il futuro sarei il presidente io stesso (ride, ndr). La verità è che stiamo vivendo una situazione senza precedenti e che nessuno sa bene cosa succederà. Gli stessi governi brancolano nel buio, siamo in territorio inesplorato. La situazione si evolve continuamente e a un ritmo molto alto. Quello che possiamo fare è cercare di comprendere al meglio il presente in cui siamo piuttosto che cercare di prevedere il futuro. Ciò nonostante, i capi di governo che in questo momento stanno affrontando la crisi spesso godono del cosiddetto rally around the flag effect: Boris Johnson, Angela Merkel, Giuseppe Conte, ma anche figure meno note come il primo ministro belga Sophie Wilmès, hanno tutti visto aumentare il proprio consenso. Ritengo quindi che se venisse dimostrato dai fatti che l’emergenza avrebbe potuto rivelarsi peggiore, i politici sfrutteranno l’occasione per tramutare in successo personale la gestione della crisi. Di certo tutti faranno carte false pur di utilizzare questa crisi per aumentare la propria popolarità. Ogni uomo e donna esperto di politica sa che non si deve mai “sprecare” una crisi. Nel nostro Paese è stato fortemente criticato il ruolo che l’Unione europea ha avuto nell’affrontare la crisi e nel relazionarsi con i Paesi più colpiti dal virus. Direbbe che l’Unione ha fallito nel suo metodo comunicativo?
Per quanto riguarda
l’Unione, i problemi evidenziati dalla
pandemia sono due. Il secondo problema è che ciò che l’Unione può fare è molto complesso da spiegare. La discussione sui coronabond che in questo momento infiamma il dibattito, per esempio, è un concetto estremamente complicato. La comunicazione europea è inevitabilmente più tecnica rispetto a quella dei singoli Stati. Perciò sì, Bruxelles ha fallito nella sua comunicazione perché nessuno guarda oggi all’Unione europea come la potenziale origine di una soluzione, nessuno ci vede un modello su cui basarsi per affrontare la crisi. Durante la crisi del debito pubblico del 2011-2012 Mario Draghi disse che avrebbe salvato l’euro a qualunque costo. Non si espresse in maniera tecnica ma garantì che avrebbe fatto tutto il necessario. Pensa che la risposta di Ursula Von der Leyen alla crisi sia stata debole dal punto di vista comunicativo? La differenza fra le due risposte sta alla base della differenza di ruoli. Draghi era il presidente della Banca centrale europea (Bce), che ha un ruolo indipendente. Von der Leyen è invece legata a dinamiche politiche interne all’Unione, e sta provando a trovare una linea politica condivisa tra gli Stati membri cercando un dialogo con loro. Draghi parlò direttamente alla popolazione. La sua non fu un’affermazione tecnica quanto una promessa che la Bce non avrebbe deluso l’Europa, e i suoi commenti avevano l’obiettivo di rassicurare sia i mercati sia i consumatori. Von der Leyen invece non ha mai parlato direttamente alla popolazione europea per assicurare che, in quest’ora difficile, l’Unione non l’avrebbe delusa. Perché secondo lei non lo ha fatto? Dopotutto nessuno si aspettava che spiegasse nel dettaglio come intendesse rendere l’Unione europea il caposaldo su cui ricostruire il futuro. Perché non può farlo. Da un lato infatti aspettiamo tutti che l’Europa faccia qualcosa, dall’altro siamo molto arrabbiati quando questa ci dice cosa fare. Von der Leyen non è un capo di Stato e quindi non è nella posizione di affrontare la crisi soprattutto se, come sembra, sta cercando il consenso delle varie parti della sua Commissione.
|