Michael Braun,
https://www.internazionale.it/opinione/michael-braun/2021/02/16/draghi-partiti
Un’onda di entusiasmo sta
accompagnando la nascita del governo Draghi. La
gran parte dei mezzi di informazione racconta
l’evento come una svolta epocale e parla del suo
principale protagonista come di un semidio, di
un salvatore della patria. Lasciamo da parte
questi toni –
talvolta imbarazzanti – più degni di una
monarchia che di una democrazia. Concentriamoci
invece sulla sostanza politica. È indubbio che
Mario Draghi può vantare una fiducia vastissima:
nel parlamento, nel paese, in Europa, sui
mercati finanziari. Una fiducia che è una
risorsa utilissima.
Ma è altrettanto indubbio
che l’ex presidente della Banca centrale europea
non ha soppiantato un governo – quello di
Giuseppe Conte – screditato, o arrivato a fine
corsa a causa di una sfiducia montante. In
questi giorni si legge che “lo spread è
crollato”. Certo, con l’arrivo di Draghi la
differenza di rendimento tra i titoli di stato
italiani e quelli tedeschi è scesa allo 0,9 per
cento. Ma prima, con Conte, non era così alta.
Da mesi era in costante discesa fino ad
arrivare, prima della crisi di governo, all’1,1
per cento. Ai tempi del primo governo Conte,
formato da Movimento 5 stelle (M5s) e Lega nord,
raggiungeva picchi del 3 per cento.
L’abbassamento si deve al Conte II e soprattutto
all’Europa che con il recovery plan aveva
dato un chiaro segnale di fiducia verso i paesi
duramente colpiti dalla pandemia come l’Italia.
Anche tenendo conto della
fiducia espressa dai cittadini in alcuni
sondaggi non si può parlare di un’immagine in
bianco e nero. Il governo Draghi è visto con
favore dal
70 per cento degli italiani. Ma, d’altro
canto, Conte e il suo governo non erano affatto
impopolari e superavano agilmente il 50 per
cento di approvazione. Ancora il 1 febbraio,
secondo un sondaggio di Ipsos, il 66 per cento
degli intervistati vedeva la crisi di governo
scatenata da Matteo Renzi come “inutile” e il 44
voleva che Conte rimanesse premier.
Si può concludere che non è
stato un senso generale di sfiducia a porre fine
al governo Conte. Si può anche dire che forse
quel governo non le ha sbagliate tutte, né sulla
gestione della pandemia né sulla reazione alle
sue conseguenze economiche e sociali. Quante ne
abbiamo sentite su un “governo senz’anima”,
senza prospettive e progetti. Intanto in questi
bilanci affrettati molti commentatori
tralasciano di ricordare che è stato proprio
quel governo a portare a casa il recovery
plan di più di 200 miliardi di euro,
risultato tutt’altro che scontato, tutt’altro
che secondario.
Una questione politica
Se Conte è arrivato a fine corsa lo deve al
semplice fatto che non disponeva più di una
maggioranza parlamentare. Questo fatto merita
uno sguardo ravvicinato. Dopo le elezioni
politiche del 2011 l’Italia non ha più avuto
capi del governo indicati chiaramente dal voto
popolare, usciti vittoriosi dalle urne come
leader del loro partito o della loro alleanza, e
dal 2013 non ci sono state alleanze organiche
con una maggioranza in parlamento. Con le
elezioni del 2013 e il successo dei cinquestelle
il sistema partitico è passato dal bipolarismo
al tripolarismo.
Nel tempo sono poi nate
coalizioni fragili che univano il diavolo con
l’acqua santa, il Partito democratico con pezzi
della destra nei governi Letta, Renzi e
Gentiloni; i cinquestelle con la Lega nel Conte
I, e poi con i cari nemici del Pd (fino al
giorno prima accusato di essere il “partito di
Bibbiano”) nel Conte II.
Sappiamo bene che
quest’ultimo esecutivo è nato per paura della
elezioni, per “salvare l’Italia dai nuovi
barbari”, come
ha detto Beppe Grillo. E che questa paura di
Matteo Salvini e di Giorgia Meloni all’inizio
era l’unico collante della strana coalizione
nata grazie a Grillo e, non bisogna
dimenticarlo, Matteo Renzi.
Date le pessime premesse
questa coalizione mal assortita ha fatto molto
meglio di quanto ci si potesse aspettare,
probabilmente a causa della dura prova della
pandemia. Che dovesse fallire non era scritto
nella storia, ma esclusivamente nei piani di
Italia viva, minuscola ma indispensabile forza
politica guidata da Renzi, dapprima ispiratore e
poi affossatore del Conte II.
L’operazione Draghi si
rivela rischiosa più per le forze che
sostenevano il governo precedente
Non trovo molto a fuoco
quei commenti che parlano della presunta
“incapacità della politica, dei partiti”. In un
parlamento privo di maggioranze organiche
chiunque sarebbe “incapace” di tirare fuori
maggioranze negate dal voto dei cittadini. A
questo punto rimanevano due alternative: o il
voto subito o un governo “del presidente”.
Sergio Mattarella ha optato
per la seconda soluzione, soluzione passata –
ricordiamocelo – grazie al sì di quasi tutti i
partiti. È stato un sì molto strano, a scatola
chiusa, senza porre condizioni sul programma e
sulla composizione del consiglio dei ministri.
Si può dire che è stato un sì che nell’immediato
può giovare all’Italia sullo scacchiere europeo
e internazionale, dove Draghi è percepito come
massima garanzia di affidabilità e di stabilità.
Ma è anche un sì le cui conseguenze per il
sistema partitico, già sfilacciato e sfibrato,
appaiono incalcolabili.
Sarebbe senz’altro positivo
se la Lega di Matteo Salvini facesse sul serio
sulla svolta, al momento solo di facciata, verso
una posizione non più rudemente
ultranazionalista (“Prima gli italiani!”) e
antieuropea. Rispetto a questo nuovo esecutivo,
Salvini ha il vantaggio di non dover temere un
“effetto Monti” sui consensi del suo partito:
mentre il governo Monti nel 2011 sottoponeva gli
italiani a un programma di lacrime e sangue,
l’esecutivo di Draghi deve gestire una crisi
economico-sociale pesantissima, ma ha dalla sua
più di 200 miliardi di euro per farlo. Inoltre
Salvini ha potuto realizzare una svolta
improvvisa senza causare scossoni nel partito:
non una voce critica si è levata contro la sua
decisione di sostenere il governo.
L’operazione Draghi si
rivela invece ben più rischiosa per le forze che
sostenevano il secondo governo Conte. Il
segretario del Pd Nicola Zingaretti per ora è
riuscito a tenere insieme quel centrosinistra
fatto dai democratici, dai cinquestelle e da
Liberi e uguali, respingendo quello che ai suoi
occhi era il piano di Renzi, e cioè disarcionare
l’alleanza Pd-M5s.
Ma quell’alleanza, per
sopravvivere, ha bisogno della sopravvivenza dei
cinquestelle. Già prima della nascita del
governo Draghi il movimento godeva di pessima
salute, senza bussola e senza leadership
legittimata. Ora i suoi problemi peggiorano
ulteriormente: deve sostenere un premier che –
anche se Grillo definisce Draghi “grillino” – è
la quintessenza di quell’establishment contro
cui è nato il M5s, e lo deve fare ingoiando
inoltre il rospo indigeribile di governare
insieme a Forza Italia e a Silvio Berlusconi (lo
“psiconano” di grillina memoria) contro cui si
scatenò sin dai primi v-day.
In questo contesto i rischi
di sfaldamento e di declino inesorabile si fanno
ancora più concreti. I cinquestelle hanno solo
una via d’uscita: quella di definire cosa
vogliono fare da grandi, magari recuperando con
più forza quel profilo ecologico e civico degli
albori (rinunciando però al mito dello splendido
isolamento che accompagnò la loro nascita).
Altrimenti la loro storia sarà finita così come
quella del nuovo centrosinistra, e il governo
Draghi sarà ricordato, al più tardi nel 2023,
come un breve intermezzo prima della vittoria di
una delle peggiori destre in Europa.