ARAB UPRISING
Il QUADRO STORICO
Giovanni De Sio Cesari
Il problema Le rivolte di questi giorni sono esplose improvvise e soprattutto impreviste: una nuova generazione, nata su internet più che dalla storia del Medio Oriente, sembra essersi materializzata improvvisante sulle piazze arabe come venuta dal nulla. In qualche modo è anche vero, si tratta di qualcosa di veramente nuovo, di una discontinuità in un mondo profondamente tradizionalista nel quale la religione rende ogni innovazione simile a una blasfemia: tuttavia il mondo al quale si trovano di fonte, che vogliono cambiare è un mondo che nasce dal processo storico del Medio Oriente: occorre allora tener presente un quadro generale storico, anche se sommario, per comprendere l’impatto e l’esito che le rivolte potrebbero avere. Per oltre mille anni islam e mondo cristiano si sono incontrati ma soprattutto scontrati sanguinosamente con alterne vicende. L’ultima volta però che une esercito islamico è stato alla pari con uno cristiano è stato nel 1683 nella battaglia di Vienna. Da allora l’islam non è stato più in grado di competere con l’Occidente che lo ha andava sempre più sopravanzando. Nel 1798 un piccolo esercito francese, al comando di Napoleone, sconfisse con irrisoria facilità i mammelucchi, una aristocrazia guerriera che da sei secoli dominava l’Egitto: in quella occasione il mondo arabo cominciò a prendere coscienza della propria arretratezza. Si manifestarono già da allora due tendenze opposte, tuttora esistenti. Alcuni ritennero che per uscire dalla decadenza bisognava adottare gli stili di vita occidentali (laici, moderati, diremmo ora ) e altri invece che bisognava tornare integralmente alle tradizioni islamiche (integralisti, talebani diremmo oggi ) Nell’800 tutto il mondo arabo fu direttamente o indirettamente sotto il controllo europeo (colonialismo ) e in genere ,ma non sempre, la resistenza più accanita agli europei venne dalla correnti integraliste ( ad esempio: i senussi in Libia, i Dervisci nel Sudan ) Nel ‘900 invece la guida della lotta al colonialismo fu assunta da movimenti detti “nazionalisti”, laici, che si richiamavano alla cultura occidentale, genericamente di sinistra, per combattere l’Occidente colonialista con l’emarginazione quindi dei movimenti integralisti che furono spesso duramente perseguitati.
Nazionalismo e integralismo Dopo la seconda guerra mondiale venne anche la fine del colonialismo più o meno pacificamente (tranne che in Algeria dove si combattè una guerra spietata ) e le potenze lasciarono al potere governi più o meno amici ma un po dovunque questi furono spazzati via dei movimenti nazionalisti, il primo e più importante dei quali fu quello egiziano guidato da Nasser ( Nasserismo) I movimenti nazionalisti allora si installarono oltre che in Egitto. in Siria e in Iraq ( partito bath socialista) nel FLN palestinese , in Libia, in Algeria e Tunisia dopo la cacciata dei francesi nello Yemen in Sudan Tutti questi paesi pure non essendo comunisti guardavano pero a Mosca come alleata contro gli americani e europei anche per la lotta contro Israele. da essi sostenuta L’Arabia Saudita e gli emirati restavano invece a governi integralisti strettamente alleati con l’Occidente, In Giordania la monarchia riusciva mantenersi con spericolati equilibrismi fra nazionalisti e occidentali mentre quella del Marocco pure restava non nemica degli occidentali Nel complesso quindi il mondo arabo abbracciava con grande entusiasmo il nazionalismo di cui erano testimonianze le grandi manifestazioni popolari : le masse popolari si aspettavano da esso la Nahda (il rinascimento) .Si pensava che la rinascita sarebbe venuti dall’affrancamento dal colonialismo e dal neo colonialismo, dall’adozione di modelli moderni occidentali e laici che avrebbero portato al progresso, a livelli di benessere simili a quelli occidentali. In nessun paese però veniva impiantato un sistema democratico pluralistico di modello occidentale e dovunque si affermava un partito unico senza libertà democratiche: d’altra parte lo stesso avveniva in tutti i paesi ex coloniali eccetto l’India, che è un caso a parte. e anche nei paesi europei comunisti Le promesse pero del nazionalismo non si realizzarono, il progresso sperato rimase un miraggio. Nel 67 la disastrosa guerra dei sei giorni contro Israele non fu solo una sconfitta militare ma evidenzio ancora la arretratezza araba: non riuscire nemmeno ad aver ragione di un piccolo stato come Israele fu sentita come Naksa un crollo generale delle illusioni e delle aspirazioni arabe Il nazionalismo comunque continuò a reggere la maggior parte del mondo arabo ma comincio sempre più a degradare verso dittature sempre meno popolari perché incapaci di risolvere i problemi. Venne meno anche il collante patriottico anti occidentale man mano che quei regimi si avvicinavano all’Occidente con il declino e poi la sparizione dell’unione Sovietica. Iniziò, come sempre l’Egitto che alla fine degli anni 70 passò all’alleanza diretta con gli americani rompendo il fronte anti israeliano. I fallimenti del nazionalismo riportarono allora alla ribalta i movimenti fondamentalisti islamici che ebbero poi improvviso impulso dalla rivoluzione Khomeinista dell’Iran e dalla guerra in Afganistan Si verificò allora un rovesciamento delle alleanze con l’Occidente. I nazionalisti erano nemici dei fondamentalisti (si ricordi ad esempio la persecuzione dei Fratelli Mussulmani da parte di Nasser) e quindi in qualche modo gli americani guardavano ad essi nel senso che i nemici dei mie nemici sono miei amici e d’altra parte gli unici veri alleati dell’America erano i sauditi ( ed emirati) fortemente integralisti. Ma ora invece il timore del fondamentalisti nato dalla rivoluzione khomeinista faceva degli ex nemici nazionalisti preziosi e insostituibili alleati : si appoggiava quindi Saddam Hussein nella sua lunga e sanguinosa guerra contro l’Iran sciita e fondamentalista. Dopo l’11 settembre il timore crebbe poi oltre ogni misura e quindi i governi nazionalisti , anche se corrotti inefficienti e antipopolari. comunque erano preferibili ai fondamentalista .
La crisi i regimi nazionalisti quindi hanno trovato una ulteriore legittimazione : semplificando certamente troppo, ma per dar l’idea: meglio un Mubarak che la shariah. Ma la legittimazione popolare dei primi tempi ormai si era dissolta , non aveva più nessuna base : Mubarak e Ben Ali e anche Gheddafi di fronte alle rivolte hanno ricordato le lotte vere o presunte contro il colonialismo ma esso è ormai un fatto del passato storico non più operante perchè si sono ormai allineati con l‘occidente in lotta con gli integralismi, anzi hanno fatto della lotta all’integralismo un mezzo per avere aiuto e appoggio dagli occidentali . A rendere più drammatica la situazione è sopraggiunto anche un altro fatto: il prevalere di correnti economiche liberiste che complessivamente accettate da quei regimi, ha dissolto anche quel socialismo arabo, una specie di Welfare (simile ma più povero di quelli occidentali) per cui vi era pur sempre un aiuto per i più poveri in paesi gremiti di poverissimi. Il neoliberismo ha sviluppato negli ultimi anni il PIL ma a tutto vantaggio dei ceti benestanti e la forbice fra ricchi e poveri si è andata allargando ( come avvenuto anche in Italia ) A un certo punto però è sopraggiunto il diffondersi delle nuove tecnologie comunicative ( internet e ancora di più al Jazeera)_è nato allora il confronto con l’Occidente e ancora di più con gli altri paesi emergenti : perche noi arabi siamo fermi mentre altri paesi (la Cina soprattutto) stanno correndo? A questo punto sono scesi nelle piazze soprattutto, ma non solo, i giovani che quel confronto avevano potuto farlo: lo schema della lotta fa un islam fondamentalista e uno moderato è apparso ormai obsoleto, funzionale al mantenimento di oligarchie corrotte e inefficienti. A questo punto il consenso è caduto tutto all’improvviso. Con esso sono caduti anche i vecchi regimi cosi come era avvenuto tante volte nella storia: non sappiamo pero come questo vuoto potrà essere riempito perche se le folle gridano alla caduta dei tiranni non hanno però nessun programma concreto per risollevare l’economia, combattere la miseria e la corruzione.
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Carrying through the revolutionby Mohamed El-Moktar , Al Arabiya
The momentum of current events is bewildering; all
the more so as the contagion is spreading at a never-before-seen pace,
conferring a historical dimension to the unfolding revolutionary
upheavals brewing these days all over the Middle East and North Africa
(MENA). The psychological barrier of fear shackling minds for so long
has finally been completely shattered. Fed up with decades of corruption
and oppression, threats and intimidations, peoples have reached the
utmost limit of their humanly possible patience. They have had more than
enough of the asphyxiating status quo. All that was needed, in this context of morally undignified existence was a trigger mechanism; and that hurriedly came from the least expected quarter and in the form of a desperate, human act, the daring self- immolation of a young Tunisian street vendor called Mohamed Bouazizi from the town of Sidi Bouzid. After having had his cart and wares unfairly confiscated by an unscrupulous policeman, under the pretext of not being licensed, he went to the municipality to reclaim his vital belongings.
There,
he was not only rebuked but underwent another senseless humiliating
ordeal. He was purportedly spat upon, adding insult to injury, by
the female bureaucrat to whom he went to lodge a complaint. Feeling
once again humiliated, he angrily left threatening to burn himself
if the issue was not immediately solved. Half an hour later he
daringly carried through this dreadful threat. That's how it all
started.
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Counter-terrorism and Arab revolt The West should not fear recent uprisings, as they address legitimate grievances.
by Robert L. Grenier, al jazeera
The fires were still smoldering in Tunisia, and violent clashes with Egyptian security forces were just beginning when I got a call from a journalist friend, the first of many such calls from reporters covering the "national security" beat in the US. "Your stomach must be in a knot," he said. For a second, I had no idea what he meant. Far from being upset, I was overtaken with the euphoria felt by many at the sight of North African Arabs, among whom I had lived for many years, finally bestirring themselves to throw off the authoritarian shackles which had held them in thrall for so long. This was something I had anticipated as an imminent development beginning literally over 20 years before, and had long since begun to despair of ever seeing in my lifetime. But now, at last, here it was beginning. Such bravery, such discipline – in a word, such nobility – expressed by ordinary citizens in countries for which I had developed a strong affection over many years filled me with what I can only describe as a reflective pride. But then, just as quickly, it dawned on me: Ah, of course. As a longtime practitioner and promoter of US counter-terrorism policy, mustn't I be dismayed at the prospective loss of the allies and partners upon whose cooperation we had relied for so many years? It was a perfectly understandable presumption, and a perfectly reasonable question. And the answer, quite simply, was "no". My satisfaction in seeing the start of the democratic uprising now spreading with almost unimaginable speed across the Arab world was occasioned not just by my empathy for the Arabs, but upon a fundamental grasp of the true interests of my own people. Faustian bargins The fact of the matter is that for those seized by the long-term struggle to deal with the scourge of terrorism in the Islamic world, the "Arab revolt" is the best possible news; and for the terrorists themselves, it is the worst that could happen. For an American to begin to understand why, it is necessary to understand the inherent contradiction which has lain at the heart of the Faustian bargain upon which American counter-terrorism policy in much of the Arab and Muslim worlds has been built. Make no mistake: It is a Faustian bargain which I, myself, have embraced. Those who must take actual responsibility for the lives of those whom they have sworn to protect – must live in the world as it is, and not as they would have it. In war, one must seize the help of allies where one can find them. The fact that western powers were forced to cooperate with Stalin during World War II did not make him or his regime any less odious; and the fact that the democracies subsequently had little choice but to acquiesce in their eastern ally's enslavement of Eastern Europe did not afford much comfort to the enslaved. A minimum requirement of decency, however, is that when one makes a bargain with the devil, one at least takes account of the moral cost in doing so. Broader solutions In the case of the so-called war on terror, however, the contradiction has gone even further than that. All those engaged in the struggle have recognised that mere tactical success – capturing or killing terrorists – cannot bring about a lasting solution to the problem. The solution to the problem of Islamically-inspired terrorism can only be provided by Muslims themselves. The long-term challenge is not posed by the terrorists – they can always be dealt with, and their Takfiri-inspired madness carries with it the seeds of its own destruction. The real challenge is in the latent sympathy which exists among Muslim populations for those who are at least willing to stand up for the downtrodden, the humiliated, and the dispossessed – even if their methods or their ultimate goals carry little appeal. It is this broad-based sympathy among some – and the ambivalence felt by many others -- which makes it difficult to isolate and eradicate those maniacally devoted to hatred and destruction, and which provides them a ready pool of new recruits. If there is a counter to the underlying appeal of terrorism, then, it is in providing an alternative means of redressing the legitimate grievances which the terrorists exploit for their purposes. If those grievances include injustice, humiliation, and brutal repression by western-backed regimes, then the best means of countering and isolating the extremists lies in appeals to international justice, social empowerment and democratic reform. If the West were actually to engage in a war of ideas, to try to address the fundamental causes of resort to terrorism, it would begin by addressing its policies in these areas. Policy over public relations I vividly recall attending a White House meeting in 2005, organised specifically to discuss the so-called "War of Ideas," and means of countering the "terrorist narrative". As the senior official responsible for countering terrorism overseas, I recall having earnestly explained the importance of policy over public relations, making the case that our problems with the Muslim world were not based on some colossal misunderstanding which could be rectified with a clever public relations campaign. I pointed out the centrality of democratic reform for what we were trying to do, and cited the inevitable tensions which we would have to acknowledge and to manage if we were to push forward President Bush’s "freedom agenda" while trying somehow to maintain cooperative intelligence relationships with the very same repressive regimes which our democratisation policies would have to be designed, in effect, to undermine. I recall just as vividly the blank stares with which these statements were greeted. As I look back on it now, it seems clear that the stares I solicited did not mask incomprehension: What they conveyed was active hostility. In the Bush White House it was forbidden to speak of "root causes" of terrorism, as this would suggest some degree of legitimacy on the part of those who should only be thought of as mindless killers. And as for Faustian bargains, well, no one was willing to concede that we had made one, much less attempt to manage it. It didn’t take many such encounters to demonstrate that effective US engagement in a war of ideas in the Muslim world was a non-starter. 'War of ideas' To the extent that any such attempts have been made, they have been confined to bland attempts at public relations, focusing on messages that are distinctly beside the point, reflected in photos of smiling Muslim-Americans extolling the religious tolerance of their adopted country. And as bad as the George W. Bush administration may have been in this respect, the Obama administration, the President's smooth rhetoric notwithstanding, has arguably up to now been worse. In fact, any American effort to engage in a "war of ideas" in the Muslim world, even if effectively waged, could and would have been of only marginal importance. The real counter-narrative to that of the terrorists is being seen now, in the streets of Sfax, Kasserine, Alexandria, Port Said, Benghazi and Zawiyah. There, and throughout the Middle East, ordinary citizens are revealing the lie which lurks at the heart of the terrorist appeal. That narrative suggests that the Muslims are condemned to a life of injustice and humiliation, that their fate is controlled by unaccountable forces, and that among those are the repressive regimes which could not exist without the support of western oppressors. Rebuking Bin Laden What the Arabs are demonstrating now is that they can, in fact, be the masters of their own fate; that they themselves carry the means of redressing the injustices and humiliations that have been visited upon them. True democratic empowerment is the best means by which the message and the tactics of the Takfiris can be rendered irrelevant. And what is most compelling is that the Arabs and the Muslims are not being empowered by others: They are empowering themselves. The struggle is by no means over. Indeed, it has only fairly begun. Its logic remains to be played out in other parts of the region. And indeed, its promise could yet be betrayed: Revolutions are often hijacked, and the noble sentiments behind them often suborned by opportunists who do not share the values which gave them rise. Still and all, it is morning again in the Arab world, redolent with the promise not just of a democratic future, but one liberated from the spectre and the fear of terrorism. The Osama Bin Ladens and the Ayman Zawahiris have much to fear in the current course of events. They are being relegated, precisely by those whom they would pretend lead, to the dustbin of history.
Robert L. Grenier is Chairman of ERG Partners, a financial advisory and consulting firm. He retired from CIA in 2006, following a 27-year career in the CIA’s Clandestine Service. Mr. Grenier served as Director of the CIA Counter-Terrorism Center (CTC) from 2004 to 2006, coordinated CIA activities in Iraq from 2002 to 2004 as the Iraq Mission Manager, and was the CIA Chief of Station in Islamabad, Pakistan before and after the 9/11 attacks.
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