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LA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI A MYANMAR
Da Amnesty International
Il primo regno birmano risale all’anno Mille. Da allora, per quasi un
millennio, si susseguirono invasioni, smembramenti e riunificazioni del
Paese. Nel 1800, la dinastia al potere tentò mire espansionistiche in
India e si scontrò con gli interessi della Compagnia inglese delle
Indie. Seguì un secolo di conflitti finché, nel 1919, la Birmania
divenne una provincia dell’impero anglo-indiano. Quasi trent’anni di
lotte, prima con gli inglesi e poi con le forze di occupazione
giapponesi durante la seconda guerra mondiale, portarono
all’indipendenza della Birmania nel 1948. La democrazia durò fra alti e
bassi fino al 1962, quando un colpo di stato militare vi pose fine.
La
storia recente delle violazioni dei diritti umani in Myanmar comincia
nell’estate del 1988, quando decine di migliaia di persone scesero in
piazza per protestare contro 26 anni di governo militare e contro la
sua politica economica. L’esercito reagì con estrema violenza aprendo
il fuoco in più occasioni sulla folla inerme. Tra i caduti durante le
dimostrazioni e quelli prelevati dalle loro abitazioni e uccisi nei
giorni seguenti, i morti furono circa 3000.
Tuttavia, dopo poche
settimane, la giunta annunciò libere elezioni; si venne allora a creare
un fronte di opposizione politica che ha tuttora in Aung San Suu Kyi,
figlia del gen. Aung San, considerato l’eroe dell’indipendenza birmana,
la sua esponente più autorevole. Le elezioni si tennero nel maggio del
1990, in un clima di pesanti intimidazioni da parte dei militari che
avevano arrestato la maggior parte dei leader politici e dei candidati
dell’opposizione, fra cui la stessa Aung San Suu Kyi, continuando in
tutto il paese una massiccia politica di repressione. La Lega nazionale
per la democrazia (Nld) ottenne l’80% dei voti, ma al nuovo Parlamento
non venne mai consentito di riunirsi. Tra il settembre 1990 e il
febbraio del 1991, almeno altri 75 parlamentari, oltre a quelli che al
momento delle elezioni si trovavano già in carcere o agli arresti
domiciliari, furono arrestati e poi condannati per “alto tradimento” o
per “complicità in alto tradimento”. Negli anni successivi il governo
birmano si è distinto per la sua politica repressiva, rivolta
soprattutto contro le espressioni di dissenso e nei confronti della
popolazione civile appartenente alle numerose minoranze etniche.
PRIGIONIERI POLITICI
Fino
agli ultimi arresti i prigionieri politici in carcere o agli arresti
domiciliari erano poco più di un migliaio. Molti in attesa di processo,
altri condannati a pene che arrivano fino a 50 anni di reclusione. Fra
loro ci sono appartenenti all’Nld, monaci, studenti, operai e chiunque
si sia reso colpevole di aver avuto contatti con birmani esuli
all’estero o aver espresso dissenso nei confronti del governo. Nel
corso dell’ultimo decennio, almeno 45 di loro sono morti, altri vivono
in condizioni estremamente precarie a seguito delle torture riportate
al momento dell’arresto o nel corso della detenzione. Amnesty
international (AI) è preoccupata da anni per le loro condizioni di
salute, a causa di torture fisiche e psicologiche e della pressoché
totale mancanza di assistenza medica. Fino agli ultimi eventi, le
richieste di AI per la tutela dei diritti umani dei prigionieri
politici sembrano essere cadute nel vuoto, né ha condotto a nulla la
richiesta di un’amnistia generalizzata per tutti i prigionieri politici
rivolta qualche anno fa dall’allora Relatore speciale per Myanmar delle
Nazioni Unite, Paulo Sergio Pinhero.
Attualmente il numero
dei prigionieri sembra più che duplicato. Fra le persone arrestate
nelle ultime settimane figurano numerosi monaci, esponenti politici e
personaggi dello spettacolo fra cui il comico più famoso del paese,
Nargar, reo di aver applaudito e nutrito i monaci in protesta.
LAVORO FORZATO
Il
lavoro forzato è pratica comune in Myanmar. Vi sono sottoposti
prigionieri politici e comuni, insieme a persone appartenenti alle
minoranze etniche. Il lavoro forzato non retribuito è una violazione
della Convenzione N. 29 dell'Organizzazione internazionale del lavoro,
alla quale Myanmar ha aderito nel 1955. AI teme che la pratica del
lavoro forzato faciliti violazioni dei diritti umani quali la tortura,
trattamenti crudeli, disumani e degradanti ed esecuzioni
extragiudiziali. Inoltre, a Myanmar il lavoro forzato si macchia anche
dell'aggravante della detenzione arbitraria, perché i civili vengono
presi con la forza dai militari per essere impiegati come lavoratori
non retribuiti ed effettivamente detenuti fino a quando l'esercito non
li solleva dai loro compiti.
REPRESSIONE DELLE MINORANZE ETNICHE
La
popolazione civile delle zone abitate da minoranze etniche subisce da
anni gravi violazioni dei diritti umani, nell’ambito di operazioni
anti-guerriglia da parte dell’esercito regolare e delle formazioni
paramilitari sue alleate. Gli abitanti di interi villaggi subiscono
feroci rappresaglie e rischiano continuamente di venire arrestati e
obbligati a prestare la loro opera come portatori o come operai nei
cantieri per la costruzione di strade, quando non vengono addirittura
utilizzati come scudi umani. Le condizioni di lavoro, secondo numerose
denunce, sono quasi sempre ai limiti della sopportabilità. Molte
persone, fra cui donne e bambini, ridotti allo stremo delle forze dopo
essere stati utilizzati praticamente come schiavi da parte dei soldati,
sono state uccise perché non segnalassero la posizione dell’esercito ai
ribelli. Particolarmente feroce è stata in questi anni la repressione
nei confronti dei Rohingya, musulmani dello stato di Rakhine (Arakan),
degli Shan e dei Karen. Nell’ambito di vaste operazioni di guerriglia
interi villaggi vengono evacuati, saccheggiati e bruciati dai militari
e dai miliziani che li fiancheggiano in quella che può essere a ragione
considerata una politica di vera e propria pulizia etnica.
SITUAZIONE ATTUALE
La
massiccia presenza militare nelle strade di Myanmar insieme agli
arresti indiscriminati degli ultimi giorni hanno messo in allarme la
comunità internazionale. Numerose testimonianze riferiscono di
sparizioni, uccisioni brutali e rastrellamenti, tuttavia rimane
estremamente difficile conoscere con esattezza la portata della
repressione, i nomi delle vittime e dove sono trattenuti i prigionieri
a causa delle deliberate e generalizzate interruzioni da parte della
giunta delle comunicazioni via internet o telefono. L'esercito ha
l'ordine di distruggere qualsiasi tipo di immagine o video riguardanti
la protesta e di punire con l'arresto e le percosse chiunque possegga
macchine fotografiche e cellulari da cui sono state scattate immagini
compromettenti. Durante i rastrellamenti della settimana scorsa non
sono stati risparmiati neppure i monasteri e numerosi monaci sono fra
le persone di cui non si sa più nulla. Secondo le autorità i morti
sarebbero stati una decina, fra i quali il giornalista giapponese Kenji
Nagai, ucciso mentre riprendeva una carica della polizia. Tuttavia è
diffusa la preoccupazione che le vittime siano molte di più. Sulla base
delle informazioni ricevute, Amnesty International ipotizza che nella
sola ex capitale Yangon gli arrestati siano circa un migliaio, la
maggior parte dei quali sono monaci. Ma anche nelle altre città il
numero dei fermi sembra essere molto elevato.
A questi
prigionieri si aggiungono le 150 persone arrestate durante il mese di
agosto, fra le quali spiccano numerose personalità di primo piano
dell’Nld e altri attivisti pro-democrazia. All'origine della protesta
scoppiata nel mese di agosto, vi è stato un aumento vertiginoso del
prezzo del gas, col conseguente raddoppio del costo dei trasporti, e di
molti generi di prima necessità. A causa di una politica dissennata, il
paese si trova infatti a fronteggiare una crisi economica senza
precedenti, nonostante le numerose risorse fra cui spiccano il legno
teak più pregiato del mondo, pietre preziose e ricchi giacimenti di
petrolio e soprattutto di gas. La mobilitazione dei monaci non è una
novità: i religiosi furono già in prima linea nella guerra di
liberazione coloniale e, soprattutto, nelle proteste del 1988.
LE RICHIESTE DI AMNESTY INTERNATIONAL
AI
ribadisce la richiesta che venga rispettato il diritto di manifestare
pacificamente e ricorda le proprie preoccupazioni per la repressione in
atto, per le condizioni dei prigionieri politici e più in generale per
la preoccupante situazione dei diritti umani in Myanmar. In
particolare, AI chiede:
• al governo di Myanmar, di porre
immediatamente fine alla violenta repressione dei dimostranti delle
scorse settimane; rilasciare subito tutti i prigionieri di coscienza,
tra cui Aung San Suu Kyi che si trova agli arresti domiciliari da quasi
12 anni; rispettare il diritto fondamentale di libera espressione e di
protesta pacifica; far cessare le numerose violazioni dei diritti umani
ampiamente documentate da Amnesty International nel corso degli anni.
•
al Consiglio di sicurezza dell’Onu, di imporre immediatamente a livello
internazionale un embargo totale e obbligatorio sulle armi; • al
Consiglio Onu per i diritti umani, di esercitare pressione sulle
autorità di Myanmar per ottenere la fine della repressione,
l’incolumità e il rilascio dei manifestanti arrestati che non siano
incriminati per un reato di effettiva natura penale e la liberazione di
tutti i prigionieri di coscienza;
• a paesi come Cina, Russia,
Serbia, Ucraina e India, di sospendere ogni fornitura di armi prevista
da contratti già conclusi e proibire il coinvolgimento di proprie
agenzie, compagnie e singole persone nella fornitura, diretta o
indiretta, di materiale militare e di sicurezza;
• ai membri
dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) che
mantengono buone relazioni con Myanmar, di fare pressioni sulle
autorità birmane per scongiurare una repressione violenta e sanguinosa
e perché vengano risolti i persistenti problemi i materia di diritti
umani.