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Conflitto del Darfur

 

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Il conflitto del Darfur (talvolta chiamato genocidio del Darfur) è un conflitto armato attualmente in corso nella regione del Darfur situata nell'ovest del Sudan, stato dell'Africa centro-orientale delimitato da Ciad, Egitto, Etiopia, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Repubblica Centroafricana e Kenia.
 

Il conflitto, iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janjaweed, un gruppo di miliziani islamici reclutati fra i membri delle locali tribù nomadi dei Baggara, e la popolazione non Baggara della regione (principalmente composta da tribù dedite all'agricoltura). Il governo sudanese, pur negando pubblicamente di supportare i Janjaweed, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit.

Le stime delle vittime del conflitto variano a seconda delle fonti da 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) alle 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice e da allora sempre citata dalle Nazioni Unite. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, sia i termini di "pulizia etnica" sia quello di "genocidio". Il Governo degli Stati Uniti ha usato il termine genocidio, non così le Nazioni Unite.

A seguito della recrudescenza degli scontri durante i mesi di luglio e agosto del 2006, il 31 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 1706, che prevede che una nuova forza di pace, composta da 20.000 caschi blu dell'ONU, sostituisca o affianchi i 7.000 uomini dell'Unione Africana attualmente presenti sul campo. Il Sudan ha avanzato forti obiezioni nei confronti della risoluzione e ha dichiarato che le forze ONU che dovessero entrare in Darfur sarebbero considerate alla stregua di invasori stranieri. Il giorno seguente i militari sudanesi hanno dato il via ad un'imponente offensiva nella regione.

Diversamente da quanto accadde per la seconda guerra civile sudanese, che vide contrapposti il nord, prevalentemente musulmano, e il sud, cristiano e animista, nel Darfur la maggior parte della popolazione è musulmana, come gli stessi Janjaweed.

Sono state finora approvate diverse risoluzioni dal Consiglio di Sicurezza, inviata sul posto una missione dell' Unione Africana (AMIS) e discusso il caso presso la Corte penale internazionale dell'Aja. Le aree più critiche sono i territori del Darfur occidentale, lungo il confine con il Ciad e oltre, dove l'assenza di condizioni di sicurezza hanno ostacolato anche l'accesso degli aiuti umanitari.
 

Contesto storico

Le cause del conflitto in corso nel Darfur sono molteplici e fra loro connesse. Le tensioni connaturate alla disuguaglianza strutturale fra il centro del paese, che si stende lungo le sponde del Nilo, e le aree "periferiche" come il Darfur sono state esacerbate negli ultimi due decenni del XX secolo da una combinazione di catastrofi naturali, opportunismo politico e geopolitica regionale. Un elemento in particolare ha creato confusione: la caratterizzazione del conflitto come scontro fra popolazioni arabe e africane, una dicotomia che lo storico Gérard Prunier ha definito "al contempo vera e falsa"

Tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV secolo la dinastia Keira, dei Fur dei monti Marrah, diede vita a un sultanato di religione islamica. Il sultanato fu in seguito conquistato dalle forze Turco-Egiziane in espansione verso il sud lungo il corso del Nilo, che a loro volta furono sconfitte da Muhammad Ahmad, autoproclamatosi Mahdi (il redentore). Lo stato mahdista cedette all'assalto delle forze britanniche guidate da Herbert Kitchener, che imposero al Sudan una dominazione congiunta anglo-egiziana. I britannici fino al 1916 accordarono al Darfur un'autonomia de jure, nel 1916 invasero la regione annettendola al Sudan.  Durante la dominazione anglo-egiziana il grosso delle risorse venne destinato allo sviluppo di Khartoum e della provincia del Nilo Azzurro, trascurando il resto del paese.

Gli abitanti della valle del Nilo, beneficiari del grosso degli investimenti britannici continuarono a perseguire una politica di emarginazione economica e politica anche dopo che, nel 1956, il paese conquistò l'indipendenza. Durante la campagna elettorale del 1968 le faziosità interne al partito dominante, l'Umma, indussero alcuni candidati, e in particolare Sadiq-al-Mahdi, a cercare di dividere l'elettorato del Darfur dando la colpa del mancato sviluppo della regione agli arabi, quando si trattava di conquistare il favore delle popolazioni stanziali, oppure facendo appello ai seminomadi Baggara perché sostenessero i fratelli arabi della regione del Nilo. Questa dicotomia arabo-africana, che non rappresentava certo il modo in cui le popolazioni indigene percepivano i rapporti locali, venne ulteriormente esasperata quando il presidente della Libia, Gheddafi, iniziò a progettare un'unione politica di stati islamici lungo tutto lo Sahel e a diffondere un'ideologia di supremazia araba. Come conseguenza di una serie di interazioni fra il Sudan, la Libia e il Ciad fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, il presidente sudanese Gaafar Nimeiry fece del Darfur una base d'appoggio per le forze ribelli anti-Gheddafi capitanate da Hissène Habré impegnate nel tentativo di rovesciare il governo del Ciad.

La scarsità di piogge durante gli anni 1983-84 provocò una terribile carestia. Si stima che in Darfur morirono circa 95.000 persone, su una popolazione complessiva di 3,1 milioni di abitanti. Nimeiry fu spodestato il 5 aprile del 1985 e Sadiq-al-Mahdi, rientrato dall'esilio, fece un patto – che non aveva nessuna intenzione di onorare – con Gheddafi, dichiarando che avrebbe ceduto il Darfur alla Libia se quest'ultima gli avesse fornito fondi sufficienti a vincere le imminenti elezioni.

Nei primi mesi del 2003 due gruppi di ribelli locali, il Movimento Giustizia e Uguaglianza (JEM) e il Movimento per la Liberazione del Sudan (SLM), hanno accusato il governo di favorire gli arabi e di opprimere i non arabi. L'SLM, che raccoglie molte più adesioni del JEM, viene generalmente identificato con i Fur, i Masalit e il clan Wagi degli Zaghawa, mentre si ritiene che il JEM sia collegato al clan Kobe degli Zaghawa. Nel 2004 il JEM si è unito al Fronte Orientale, un'alleanza creata lo stesso anno fra due gruppi tribali ribelli dell'est, i Free Lions della tribù Rashaida e il Beja Congress. Il JEM è anche stato accusato di essere controllato da Hasan al-Turabi. Il 20 gennaio del 2006 l'SLM ha annunciato la propria unione con il JEM nell'Alleanza delle forze rivoluzionare del Sudan Occidentale. Tuttavia non più tardi di maggio SLM e JEM negoziavano di nuovo come entità distinte.

Storia del conflitto: 2003-2006

L'inizio del conflitto in Darfur viene generalmente fatto coincidere con il 26 febbraio 2003, quando il Fronte di Liberazione del Darfur (FLD) rivendicò pubblicamente un attacco su Golo, quartier generale del distretto di Jebel Marra. Ancora prima di questo attacco, comunque, vi erano già state conflittualità in Darfur, quando i ribelli avevano attaccato stazioni di polizia, avamposti e convogli militari e il governo aveva risposto con un massiccio assalto aereo e terrestre alla roccaforte dei ribelli nelle montagne Marrah. La prima azione militare da parte dei ribelli fu un attacco condotto con successo contro un presidio militare in montagna il 25 febbraio 2002 e il governo sudanese venne a conoscenza dell'esistenza di un movimento ribelle unificato nel momento in cui venne attaccata la stazione di polizia di Golo nel giugno 2002. I cronisti Julie Flint ed Alex de Waal considerano che l'inizio della ribellione debba datarsi al 21 luglio 2001, quando gruppi Zaghawa e Fur si incontrarono nel villaggio di Abu Gamra e giurarono sul Corano di cooperare per difendersi da attacchi sostenuti dal governo contro i propri villaggi. È da notare che quasi tutti gli abitanti del Darfur sono musulmani, così come lo sono i Janjaweed e i leader governativi di Khartoum.

Il 25 marzo, i ribelli occuparono la città-presidio di Tine lungo il confine del Ciad, confiscando grandi quantità di provviste ed armamenti. Nonostante la minaccia del Presidente Omar al-Bashir di "sguinzagliare" l'esercito, i militari avevano poche risorse a loro disposizione. L'esercito era già stato schierato sia a Sud, dove la Seconda Guerra Civile sudanese stava volgendo al termine, sia ad Est, dove i ribelli finanziati dall'Eritrea stavano mettendo in pericolo il completamento del nuovo oleodotto che collega l'area dei bacini petroliferi a Port Sudan. La tattica dei raid “colpisci e scappa” con jeep Toyota Land Cruiser, usata dai ribelli per attraversare velocemente la regione semi-deserta, impedì all'esercito, impreparato per operazioni militari nel deserto, di contrastare gli attacchi. Ciò nonostante, il bombardamento aereo contro le postazioni dei ribelli in montagna si rivelò devastante.

Alle 5:30 del mattino del 25 aprile 2003, una forza congiunta formata dall'Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) e dal Movimento per la Giustizia e l'Uguaglianza (JEM) penetrò ad al-Fashir su 33 Land Cruiser e attaccò la guarnigione addormentata. Nelle successive quattro ore, alcuni bombardieri Antonov ed elicotteri con armamento pesante (quattro secondo il governo, sette secondo i ribelli) vennero distrutti a terra, 75 soldati, piloti e tecnici uccisi e 32 catturati, compreso il comandante della base aerea, un Generale di divisione. I ribelli persero nove uomini. Il successo dell'attacco fu senza precedenti in Sudan: nei vent'anni di guerra nel Sud, l'Esercito ribelle di Liberazione del Popolo del Sudan (SPLA) non aveva mai compiuto una tale operazione militare.

Via libera ai Janjaweed (2003

L'incursione ad al-Fashir rappresentò una svolta decisiva dal punto di vista sia militare sia psicologico. Le forze armate erano state umiliate dal raid e il governo si trovò di fronte ad una situazione strategica difficile. Le forze armate avrebbero dovuto chiaramente ricevere un addestramento e una struttura adatti a combattere questo nuovo tipo di guerra. Inoltre vi erano preoccupazioni ben motivate riguardo alla fedeltà all'esercito dei numerosi sottoufficiali e soldati originari del Darfur. L'incarico di continuare la guerra venne dato all'Intelligence militare sudanese. Tuttavia, a metà del 2003 i ribelli vinsero 34 scontri su 38. Nel mese di maggio, l'SLA distrusse un battaglione a Kutum, uccidendo 500 persone e facendo 300 prigionieri, e a metà luglio, 250 persone vennero uccise in un secondo attacco a Tine. L'SLA iniziò ad infiltrarsi più ad Est, minacciando di estendere la guerra fino a Kordofan.

A questo punto il governo modificò la propria strategia. Dato che l'esercito continuava a subire sconfitte, l'azione di guerra passò nelle mani di tre nuclei distinti: l'Intelligence militare, l'Aeronautica e le milizie Janjaweed, pastori nomadi armati dell'etnia Baggara su cui il governo si era appoggiato per la prima volta per reprimere una rivolta dei Masalit scoppiata tra il 1996 e il 1999. I Janjaweed furono collocati al centro della nuova strategia per contrastare la rivolta. In Darfur furono fatte affluire risorse militari e i Janjaweed furono affiancati come forza paramilitare, muniti di attrezzature per la comunicazione e artiglieria. I probabili risultati di una tale scelta erano chiari ai pianificatori militari: nel decennio precedente, nelle Montagne Nuba e nei campi petroliferi meridionali, una simile strategia aveva provocato massicce violazioni dei diritti umani e deportazioni.

Le milizie Janjaweed, meglio armate, volsero velocemente la situazione a proprio favore. Nella primavera del 2004, diverse migliaia di persone — soprattutto non-arabi — vennero uccise e almeno più di un milione cacciate dalle proprie case, causando una grave crisi umanitaria nella regione. Tale crisi assunse una dimensione internazionale quando oltre 100.000 profughi si riversarono nel vicino Ciad, perseguitati dai miliziani Janjaweed che entrarono in conflitto armato con le forze governative ciadiane lungo il confine. Nel mese di aprile, oltre 70 miliziani e 10 soldati ciadiani rimasero uccisi nel corso di una sparatoria. Un gruppo di osservatori delle Nazioni Unite dichiarò che erano presi di mira i villaggi non-arabi, mentre quelli arabi venivano risparmiati:

Nel 2004 il Ciad interruppe i negoziati a N'Djamena e questo condusse all'accordo per la cosiddetta cessazione delle ostilità umanitaria dell'8 aprile tra il governo del Sudan da una parte e il JEM e il SLM (Movimento di Liberazione del Sudan) dall'altra. Una corrente scissionista del JEM — il Movimento Nazionale per la Riforma e lo Sviluppo — non prese parte alle discussioni e all'accordo sul cessate il fuoco. Gli attacchi dei Janjaweed e dei ribelli continuarono malgrado la firma dell'accordo. L'Unione Africana (UA) formò una Commissione per il cessate il fuoco (CFC) per controllare l'osservazione degli accordi.

La portata della crisi portò a temere un imminente disastro, mentre il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan avvertiva che il rischio di genocidio era una spaventosa realtà in Darfur. La vastità dell'azione condotta dai Janjaweed portò a paragonarla al genocidio del Ruanda, un paragone fortemente osteggiato dal governo sudanese. Osservatori indipendenti hanno notato che le tattiche, che includono smembramenti e uccisioni di non-combattenti e persino di bambini e neonati, assomigliano di più alla pulizia etnica impiegata nelle guerre in Yugoslavia, ma hanno anche aggiunto che la lontananza della regione impedisce a centinaia di migliaia di persone l'accesso agli aiuti. Nel maggio 2004, l'International Crisis Group (ICG) con sede a Bruxelles rivelò che oltre 350.000 persone avrebbero potuto potenzialmente morire a causa della fame e delle malattie.

Il 10 luglio 2005, l'ex leader dell'SPLA John Garang venne nominato vice-presidente del Sudan., ma il 30 luglio 2005 perse la vita in un incidente aereo. La sua morte provocò conseguenze a lungo termine e, nonostante i progressi nel settore della sicurezza, i dialoghi tra i vari gruppi di ribelli nella regione del Darfur sono avanzati lentamente.

Nel dicembre 2005, un attacco contro il villaggio ciadiano di Adre, vicino al confine sudanese, causò la morte di 300 ribelli e il Sudan fu incolpato dell'attacco, il secondo nella regione in tre giorni.L'intensificarsi delle tensioni nella regione portò il governo del Ciad a dichiarare guerra al Sudan e a chiedere ai propri cittadini di mobilitarsi contro il "nemico in comune ".

Accordo di maggio (2006)

Il 5 maggio 2006 il governo del Sudan ha firmato un accordo di pace con l'Esercito di Liberazione del Sudan (SLA), respinto però da altri due gruppi ribelli minori, il Movimento di Giustizia ed Uguaglianza (JEM) e una fazione rivale dell'SLA.  L'accordo fu coordinato dal Vice Segretario di Stato statunitense Robert B. Zoellick, da Salim Ahmed Salim (per conto dell'Unione Africana), da rappresentanti dell'UA e altri ufficiali stranieri che operano in Nigeria, ad Abuja. L'accordo prevede il disarmo delle milizie Janjaweed, lo smantellamento delle forze ribelli e la loro incorporazione nell'esercito.

Luglio – agosto 2006

Nei mesi di luglio ed agosto 2006 sono ripresi i combattimenti, "minacciando di bloccare la più grande operazione di soccorso nel mondo" dato che le organizzazioni di aiuti umanitari hanno preso in considerazione la possibilità di lasciare il paese a causa degli attacchi contro membri del proprio personale. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha chiesto l'invio nella regione di una forza di pace internazionale di 17.000 uomini per sostituire quella dell'Unione Africana di 7.000 uomini.

Il 18 agosto, Hedi Annabi, responsabile delle forze di pace dell'ONU e Segretario Generale aggiunto per le missioni di pace, durante una riunione privata ha comunicato l'allarmante sospetto che il Sudan stia preparando una grossa offensiva militare nella regione. [24] L'avvertimento è arrivato un giorno dopo la dichiarazione di Sima Samar, osservatrice speciale della Commissione ONU per i Diritti Umani, che gli sforzi del Sudan nella regione rimangono insufficienti nonostante l'Accordo di Maggio. [25] Il 19 agosto, il Sudan ha rinnovato il proprio rifiuto di sostituire la forza dell'UA di 7.000 uomini con una dell'ONU di 17.000, [26] tanto che gli Stati Uniti hanno "messo in guardia" il Sudan delle "potenziali conseguenze" di questa posizione.Il 24 agosto, il Sudan ha rifiutato di partecipare a un incontro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CSNU) dove avrebbe dovuto presentare il proprio piano di invio di 10.000 soldati sudanesi in Darfur anziché la forza di pace proposta di 20.000 uomini. [Il CSNU ha annunciato che l'incontro si sarebbe tenuto comunque, nonostante il rifiuto del Sudan di parteciparvi. Sempre il 24 agosto, l'International Rescue Committee ha rivelato che, nel corso delle ultime settimane, centinaia di donne sono state stuprate e aggredite sessualmente nel campo profughi di Kalma. Il 25 agosto, il capo dell'Ufficio del Dipartimento di Stato per le politiche africane degli Stati Uniti, Jendayi Frazer, ha avvertito che la regione si trova di fronte una crisi di sicurezza, a meno che non venga autorizzato la presenza della forza di pace proposta dall'ONU.

Nuovo contingente di pace proposto dalle Nazioni Unite

Il 31 agosto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione al fine di inviare una nuova forza di pace di 20.000 unità nella regione. Il governo sudanese si è opposto con fermezza alla risoluzione.  Il 1 settembre, ufficiali dell'UA hanno riportato che il Sudan ha intrapreso una grande offensiva nella regione del Darfur. Secondo fonti dell'UA, più di 20 persone sono state uccise e 1.000 hanno dovuto abbandonare i loro villaggi durante gli scontri che sono iniziati nei primi giorni della settimana. Il 5 settembre il governo sudanese ha chiesto ai soldati dell'UA dislocati in Darfur di lasciare la regione entro la fine del mese, aggiungendo che “essi non hanno il diritto di trasferire il mandato alle Nazioni Unite o a qualunque altro organismo. Tale diritto è e rimane nelle mani del governo del Sudan.” Il 4 settembre, con una mossa attesa, il presidente del Ciad Idriss Déby ha affermato il suo appoggio alla nuova forza di pace delle Nazioni Unite.  L'UA, il cui mandato per la missione di pace doveva scadere il 30 settembre, ha confermato che si sarebbe attenuto alla data fissata per lasciare il paese. Il giorno successivo, comunque, un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano, che non vuole essere identificato, ha detto ai giornalisti che il contingente sarebbe probabilmente rimasto nella regione oltre il 30 settembre, sostenendo che sarebbe stata “un'opzione possibile e percorribile”. [

L'8 settembre il capo dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'ONU, Antonio Guterres, ha detto che il Darfur si trova di fronte a una “catastrofe umanitaria” . [Il 12 settembre Pekka Haavisto, inviato dell'UE in Sudan, ha affermato che l'esercito sudanese sta “bombardando la popolazione civile in Darfur” . Un funzionario del World Food Program ha riferito che almeno a 355.000 persone nella regione sono stati tagliati gli aiuti alimentari.  Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha comunicato al Consiglio di Sicurezza che “la tragedia in Darfur è ad un punto critico. Richiede la più stretta osservazione da parte del Consiglio e un intervento urgente.”

Il 14 settembre, il leader del defunto SLM (Movimento di Liberazione del Sudan), che ora è consigliere personale del Presidente della Repubblica e presidente ad interim dell'Autorità Regionale del Darfur, Minni Minnawi, ha dichiarato di non avere obiezioni contro la nuova forza di pace delle Nazioni Unite, prendendo così le distanze dal governo sudanese che considera tale spiegamento di forze un atto di invasione da parte dell'Occidente. Minnawi sostiene che la forza dell'UA “non può fare nulla perché il mandato dell'Unione Africana è molto limitato”. Il 2 ottobre, la UA ha annunciato che avrebbe esteso la propria presenza nella regione dopo il fallimento della proposta di inviare il contingente di pace delle Nazioni Unite dovuto all'opposizione del Sudan. Il 6 ottobre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato l'estensione del mandato della missione ONU in Sudan fino al 30 aprile 2007. Il 9 ottobre, la FAO ha dichiarato la regione di Darfur come la zona di maggiore emergenza alimentare dei quaranta paesi compresi nel suo rapporto “La situazione dell'alimentazione e dell'agricoltura nel mondo”. Il 10 ottobre Louise Arbour, Alto Commissario UN per i Diritti umani, ha denunciato che il governo sudanese era stato informato in anticipo degli attacchi che le milizie Janjaweed hanno perpetrato un mese prima a Buram, nel Dafur meridionale, e che hanno visto l'uccisione di centinaia di civili. [47]

La risposta internazionale (2003-2006)

L'attenzione a livello internazionale iniziò a focalizzarsi sul conflitto in Darfur in seguito al rapporto di Amnesty International nel luglio 2003 e del Gruppo di crisi internazionale nel dicembre dello stesso anno. Ma la copertura dei mezzi di comunicazione non iniziò fino a marzo 2004, quando l'uscente Residente delle Nazioni Unite e Coordinatore Umanitario per il Sudan, Mukesh Kapila, definì il Darfur la “più grande crisi umanitaria del mondo”. A partire da quel momento sono sorti movimenti in molti paesi per chiedere un intervento umanitario nella regione. Gérard Prunier, uno studioso specializzato in conflitti africani, sostiene che gli stati più potenti del mondo hanno limitato la propria risposta a frasi di preoccupazione e richiede l'intervento delle Nazioni Unite. L'ONU, privo del supporto sia finanziario che militare degli stati ricchi, ha lasciato che l'Unione Africana mettesse in campo il suo simbolico contingente senza nessun mandato per proteggere i civili. In mancanza di una politica estera che definisca le strutture politiche ed economiche che sottostanno al conflitto, la comunità internazionale ha definito il conflitto in Darfur in termini di assistenza umanitaria e discute sulla definizione di “genocidio”.

Il gruppo di pressione Save Darfur Coalition ha coordinato una grande manifestazione a Washington, D.C. in aprile del 2006

Rivendicazione di genocidio

Il 18 settembre 2004 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato la Risoluzione 1564, che istituiva una Commissione d'Inchiesta sul Darfur, incaricata di esprimere valutazioni sul conflitto in Sudan. Il rapporto dell'ONU del 31 gennaio 2005 sostiene che ci siano stati uccisioni in massa e violazioni, ma che non possano essere definiti genocidio poiché “non sembrano esserci intenti di genocidio”.  Nel 2005 il deputato Henry Hyde (R-IL) e il senatore Sam Brownback (R-KS) introdussero la legge sulla responsabilità e la pace in Darfur, che richiedeva agli Stati Uniti un ruolo più attivo nel fermare il presunto genocidio, incoraggiava la partecipazione della NATO e appoggiava un mandato del Capitolo VII per una missione ONU in Darfur. La bozza di legge passò alla Camera e al Senato, e da agosto del 2006 è nelle mani dalla Commissione Intercamerale. Nell'agosto 2006 il Network per l'Intervento nel Genocidio realizza una classifica per il Darfur, valutando ogni membro del Congresso in base alle sue proposte legislative riguardo al conflitto.

Morti

 È difficile calcolare esattamente il numero dei morti, in parte a causa degli insormontabili ostacoli che il governo sudanese innalza contro i giornalisti per cercare di nascondere il conflitto.Nel settembre 2004 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) valutò che fossero morte 50.000 persone in Darfur dall'inizio del conflitto, in un periodo cioè di 18 mesi, la maggior parte delle quali per fame. Un aggiornamento del mese successivo relativo al periodo marzo – ottobre 2004 parla di 70.000 morti in 6 mesi per fame e malattie. Questi dati sono stati criticati, in quanto considerano solamente un breve periodo e non includono tra le cause la morte violenta. Un rapporto più recente del Parlamento britannico ha valutato che siano morte più di 300.000 persone ed altri hanno fatto stime anche superiori. Nel marzo 2005 il Coordinatore per il Soccorso d'emergenza dell'ONU, Jan Egeland, valutò che 10.000 persone morissero ogni mese, escludendo le morti dovute alla violenza etnica.  Si ritiene che nello stesso periodo due milioni di persone abbiano dovuto abbandonare le proprie case, la maggior parte di esse in cerca di rifugio nei campi profughi delle città più grandi del Darfur . Duecentomila sono fuggite nel vicino Ciad. In un rapporto dell'aprile 2005, l'analisi statistica maggiormente esauriente fino a quel momento, la Coalizione per la Giustizia Internazionale ha stimato che in Darfur siano morte 400.000 persone dall'inizio del conflitto, un dato che viene oggi ampiamente usato dai gruppi impegnati sul fronte dei diritti umani ed umanitari. l 28 aprile 2006 il Dottor Eric Reeves ha dichiarato che "i dati esistenti, in aggregato, suggeriscono chiaramente che l'eccesso totale delle morti in Darfur, durante più di tre anni di conflitto mortale, supera ora i 450.000 morti", ma ciò non è stato verificato da fonti indipendenti. [58] Un articolo del 1 febbraio 2007 dello UN News Service ha dichiarato che "in Darfur, più di 200.000 persone sono state uccise e almeno altri 2 milioni hanno dovuto abbandonare le proprie case ". Inoltre "circa 4 milioni di persone dipendono da un aiuto esterno"[Questi sono adesso i dati ufficiali delle Nazioni Unite. Il 31 Luglio 2007 le stesse Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione che prevede l'impiego nella regione di 26.000 soldati quale forza di interposizione pacifica. L'accordo è stato raggiunto per l'impegno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, guidato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nonostante le resistenze del governo centrale sudanese. Significativo è stato il sostegno alle posizioni occidentali da parte della Cina, maggiore partner commerciale del Sudan

Interventi umanitari

L' Unione Africana è presente nella regione con una forza di pace di 7.000 uomini, insufficiente per arginare la violenza delle milizie arabe janjaweed, sostenute dal Governo di Khartum, la capitale del Sudan. Sono inoltre presenti 97 tra ONG e agenzie dell'ONU, con un totale di più di 14.000 operatori umanitari, per lo più concentrati a Nyala, capitale del Sud del Darfur. L'Italia è attualmente impegnata in Darfur con 5 ONG, distribuite nel Nord, Sud e Ovest del Darfur, impegnate in progetti di carattere sanitario e idrici. Sono tutte membri della Associazione delle ONG italiane: Cosv, Copi, Cesvi e InterSos del comitato "Darfur onlus", e la Alisei.
Da più di 30 anni operano in Darfur anche le Suore della Carità e i Padri Comboniani, ai quali si aggiunge la Caritas Italiana, mentre il Governo Italiano è presente con la Cooperazione Italiana allo sviluppo e le strutture sanitarie di Avamposto 55, che pur non avendo raggiunto gli obiettivi proposti, per mancanza di fondi, è oggi un attivo presidio medico di primo soccorso e di supporto anche nel training dei medici di Nyala.