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A CINQUE ANNI DALL'ATTACCO
CONTRO GLI USA
DELL'11 SETTEMBRE 2001
GUERRA ALL'OCCIDENTE,
È L’ORA DELLA DIPLOMAZIA
Se la prima reazione
americana, con l’attacco in Afghanistan, era giustificata, già con l’Irak la
risposta armata è stata inefficace.
Dunque, bisogna convincere i nemici . A partire dall’Iran.
Il quinto anniversario dell’11 settembre è trascorso sui giornali senza una risposta alla sola domanda che urge nel cuore e nella testa di tutti: quando finirà questa guerra scatenata dal fondamentalismo islamico?
Sembra non esserci mai stata, nella cultura politica dell’Occidente negli ultimi secoli, tanta omogeneità di giudizio su un singolo protagonista della storia, come quella manifestata, in Europa e negli stessi Stati Uniti, sugli "errori" e sulle "colpe" di George W. Bush dopo quel maledetto 11 settembre 2001.
In realtà, il primo sentimento generale, di qua e di là dall’Atlantico, fu allora pressoché unanime, e ancora adesso ci pare di poterlo definire giusto e comprensibile, se prescindiamo da quello che è successo in questi cinque anni: l’America non poteva non sentirsi duramente colpita e altrettanto duramente decisa a punire chi l’aveva sfregiata in quel modo orribile.
Il sentimento di allora può essere descritto così: i terroristi che avevano organizzato e realizzato lo scempio delle Torri gemelle dovevano essere cercati, snidati e catturati, o eliminati, dove si nascondevano. Non era un mistero per l’intelligence: si trovavano in Afghanistan, ai confini con il Pakistan. Erano protetti dai talebani, i peggiori estremisti dell’Islam moderno.
Nessun presidente degli Usa si sarebbe comportato altrimenti: il concorrente democratico di George Bush nelle ultime elezioni presidenziali, il democratico Kerry, non propose in realtà nulla di più accettabile ed efficace, sebbene l’America fosse già da un anno in guerra non più solo in Afghanistan, ma anche in Irak (con molta meno ragione). E infatti fu sconfitto alle urne.
Oggi, che cosa resta di quell’ineluttabile
reazione all’11 settembre?
Il fenomeno più grave e inatteso non è che Al Qaida e il suo capo Osama Bin
Laden siano ancora in vita, operanti e soprattutto presenti sui media arabi,
e di qui in tutto il mondo, ma che il terrorismo di matrice islamica si sia
irradiato in molti Paesi, abbia colpito e continui a colpire un po’ dappertutto
e fruisca della più moderna e occidentale tecnologia, sia materiale (armi ed
esplosivi), sia telematica e informatica; il che favorisce a sua volta forti
trasferimenti finanziari, difficili da inseguire da parte del controspionaggio.
E resta l’altrettanto inattesa emersione dell’Iran come potenza, per ora regionale, ma con ambizioni da califfato mondiale dal Pacifico fino all’Atlantico, e relativo arsenale nucleare militare (se è vero, come qualcuno dice, che Teheran potrebbe arrivare alla bomba atomica nel giro dei prossimi due anni).
Anche l’attuale crisi in Libano ha origine principalmente in Iran, amico e protettore del "partito di Dio", gli Hezbollah. Dunque, il problema va affrontato e risolto con l’Iran. Come? È altamente improbabile che qualcuno pensi, in America o in Europa, a una replica contro Teheran dell’attacco all’Irak, finora così scarso di risultati. Sembra dunque l’ora della diplomazia.
Ci sta provando l’Europa, con forte impulso dell’Italia, su mandato dell’Onu e con il consenso di Washington. Le speranze non sono molte: puntano sull’affievolimento del favore popolare sciita agli Hezbollah in Libano (le rovine di Beirut e Tiro non sono responsabilità solo di Israele, ma di chi ha provocato Israele) e sulla finora inedita (ma molto controversa) disponibilità della Siria a far controllare i passaggi di armi iraniane per il "partito di Dio". Quanto a Teheran, non è detto che Ahmadinejad, il negatore dell’Olocausto ebraico, non possa essere ridotto a più miti consigli, dai suoi stessi ayatollah.